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Wlilliam Kentridge, il griot bianco

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su dicembre 15, 2012

Kentridge, The refusal of time

Kentridge, The refusal of time

Teatro, musica, cinema e disegno s’incontrano nell’”opera totale” di William  Kentridge, protagonista di una personale al MAXXI  di Roma e  di una mostra di viedeoarte alla Tate di Londra

 di Simona Maggiorelli

Quando da giovane allievo della scuola d’arte a Johannesburg, William Kentridge si trovò alle prese con pennelli, colori ad olio e cavalletto, pensò che fare il pittore non faceva per lui. Ma poi scoprì il disegno come modo originario e immediato di espressione. «Il disegno è pre verbale, istantaneo, irriflesso» dice lui stesso intervistato dal Guardian in occasione della personale che gli dedica la Tate Modern di Londra fino al 20 gennaio. Aggiungendo poi: «L’immediatezza di pensare per disegni è vitale per me».

Così come è centrale nella sua arte il legame con la cultura sudafricana, che Kentridge reinterpreta da inaspettato e originale “griot” bianco. Di fatto, anche per la sua economicità, il disegno conosce una lunga tradizione artistica e popolare in Africa. E Kentridge ne sperimenta le potenzialità e la flessibilità a tutto raggio: dalla puntasecca al carboncino a cui ricorre per portare lo spettatore in un universo sfumato ed evocativo di storie sognate. Usando la pratica della cancellatura, come modo per rigenerare continuamente l’opera. Strumento agile, cangiante, monocromatico (come esigeva fin dagli esordi la sua raffinata estetica) il disegno è alla base dell’affascinante serie di opere grafiche con cui da anni racconta la storia mai scritta dei neri in Sudafrica.

MAXXi_Kentridge_VerticalThinking_ph.ThysDullaart - Figlio di due avvocati bianchi che difendevano gratis le vittime dell’apartheid, da artista, ne ha tratteggiato le drammatiche storie facendole entrare nei musei di tutto il mondo, trasfigurate in un’epica per immagini dal sapore fiabesco. L’universo artistico di Kentridge, come racconta ora anche la bella mostra Vertical time curata da Giulia Ferraccia al MAXXI di Roma (aperta fino al 3 marzo 2013), è popolato di anti eroi, di poetici Don Chisciotte e Sancho Panza dalla pelle scura. Figure che si stagliano nella memoria della mostra che Carolyn Christov-Bakargiev gli dedicò al Castello di Rivoli nel 2004.

Come foglie di una potente edera rampicante le sequenze di fogli disegnati correvano lungo le pareti della dimora sabauda, arrivando fino al soffitto. E alla fine lo spettatore si trovava come al centro di una caleidoscopica palla di vetro che proiettava tutt’intorno sequenze di immagini, fotogrammi, icastici frammenti della dolorosa storia di un servo e del suo sordido padrone.

Kentridge, The Refusal of time

Kentridge, The Refusal of time

Un apologo che ricorre più volte nell’opera di Kentridge facendosi metafora di molte altre schiavitù, mentali prima che fisiche. Per esprimere una dimensione universale di lotta e di opposizione alle avversità e all’oppressione, più di recente, l’artista mette insieme una pluralità di linguaggi espressivi, arrivando anche all’azione teatrale e alla performance, come si è visto al Romaeuropafestival dove Kentridge ha interpretato, con una danzatrice, il suo Refuse the Hour.

Un tema, quello del rifiuto dello scorrere del tempo, che ritroviamo anche al MAXXI dove si può vedere la Wunderkammer animata, The Refusal of Time realizzata, fra echi modernisti e rimandi scientifici, per la stessa Christov-Bakargiev in occasione della recente Documenta 13.  Una video installazione che si presenta come una  suggestiva macchina scenica  in cui metronomi e batterie battono ritmicamente a frequenze diverse. Segnando il ritmo di un tempo basato sul meridiano di Greenwich, secondo il tempo eurocentrico imposto dal colonialismo. Davanti a noi  sedie sparse qua e là di vago gusto retrò. Una scena apparententemente immobile.Finché il ritmo piccato, inesorabile  e battente del metronomo si trasforma in ritmi e percussioni. E calde voci nere  intonano canti tribali evocando ampi orizzonti africani.                                         ( dal settimnale  left-Avvenimenti)

 

Scoppia  la rivoluzione alla Tate Gallery

Kentridge alla Tate gallery

Kentridge alla Tate gallery

Fin dai tempi in cui entrava nell’universo di Italo Svevo facendo del personaggio Zeno Cosini il proprio alter ego, William Kentridge ha sempre avuto dalla sua l’appeal e la chiarezza narrativa del fumetto. Non a caso l’artista suafricano si è imposto all’attenzione internazionale con disegni e filmati. Che affrontano dolorose questioni politiche e sociali come il razzimo.  Con una semplicità e un interesse per la realtà umana rara nell’arte contemporanea. Gli otto cortometraggi che l’artista propone fino al 20 gennaio alla Tate Gallery di Londra in una nuova installazione audiovisiva compiono un passo ulteriore: unendo alla passione civile un linguaggio più raffinato che lavora sulle metafore, sille anologie, sulle evocazioni di senso. Con quella potenza sintetica ed espressiva che appartiene alla poesia. E’ qui forse, in questo suggestivo lavoro dove Kentridge crea un ideale parellellismo fra la lotta dei neri contro il colonialismo e la rivoluzione russa del 1917, che trova realizzazione piena, il suo suo sogno di “arte totale”, combinando linguaggi diversi, dalla videoarte, al cinema, alla  pittura. Le immagini della rivoluzione russa e le sue conseguenze vengono mostrati contemporaneamente ai ritmi sincopati di una colonna sonora in gran parte ispirata da canti sudafricani e canzoni di protesta di epoca dell’apartheid.  Quasi come fosse un contrappunto, intanto, stilizzati disegni ricreano ( e non senza una punta di parodia) l’astrazione geometrica di designer russi costruttivisti grafici come El Lissitzky. Il progetto che comprende le opere Perché io non sono io e Il cavallo non è mio è iniziato come monumentale scenografia per la recente produzione del Metropolitan  di un’ pera di Dmitry Shostakovich  e che Kentridge ha progettato e diretto. L’opera si basa su un racconto fantastico di Nikolai Gogol in cui un funzionario di nome  Kovalyov si sveglia una mattina e scopre che il suo naso è scomparso. Quando lo rintraccia, scopre che è diventato un pubblico ufficiale con un grado leggermente più alto del suo. Tanto che il suo naso si ritiene libero di snobbare il suo proprietario originario. Si scatena così una rocambolesca ridda di avventure fin quando la protuberanza errante si rassegnerà a tornare al suo posto. Nel frattempo,  Kentridge ci ha regalato la possibilità di incontrare snob di San Pietroburgo, personaggi stolidi e ottusi con i manicotti e loschi figuri, tutta quella grottesca fauna che popola la burocrazia russa dela seconda metà del l XIX secolo. Chi ebbe modo di ascoltare la prima dell’opera che ne cavò Shostakovich di certo no faticò a riconoscervi l’obiettivo satirico: lo stato totalitario di Stalin. William Kentridge apre quest’opera musicale alla polisemia, lasciando trasparire in filigrana l’obiettivo di smascherare le sopravvivenze dell’apartheid in Sudafrica. Insomma il capolavoro della letteratura russa firmato da Gogol, trasformato in opera da Shostakovich viene rimontato per stigmatizzare il XXI secolo sudafricano. La dimensione allegorica della storia non cambia, ma ogni secolo si vede attraverso il prisma della sua esperienza politica.

 

 

 

 

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Magia alla Marc Chagall

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su ottobre 30, 2009

Creature della notte e incontri d’amore negli anni mediterranei del pittore russo in mostra  a Palazzo Blu a  Pisa

di Simona Maggiorelli

«Le ricerche dei cubisti non mi hanno mai appassionato. Riducevano tutto a una geometria di cui restavano schiavi, mentre io cercavo piuttosto una liberazione plastica, non solo della fantasia o dell’immaginazione», così in un’intervista Marc Chagall raccontava la propria ricerca, non riuscendo a dissimulare un certo rodimento verso quella picassiana che negli anni Dieci del Novecento aveva rivoluzionato radicalmente il modo di intendere e di fare pittura. Rivendicando il valore inattuale dell’arte figurativa, il pittore di Vitbsk difendeva un suo personale universo poetico, legato alla cultura ebraica e popolare dei villaggi della Russia, un mondo a parte lontanissimo da ciò che accadeva in Europa.Rivendicando legami con una tradizione che si era fermata nel tempo con un’iconografia quasi raggelata. Non si può dimenticare, senza volerla dire in termini rudemente marxisti che la servitù della gleba fino e oltre la rivoluzione del 1917 era la realtà di larga parte della Russia e la necessità di soddisfare i bisogni primari non lasciava molto tempo per l’arte .  Ma è anche vero che , quella tradizione, Chagall cercava di  rileggerla attraverso una lente deformante, con carica visionaria, personale.

«Io mi sforzo di costruire un mondo dove l’albero può significare altro – diceva – dove io posso immediatamente constatare di avere sette dita nella mano destra, ma cinque in quella sinistra, insomma un universo dove tutto è possibile».

La fantasia di Chagall., come aspirazione,  inseguiva la potenza del sogno, libero dalle griglie rigide del principio di non contraddizione. Cercava la polisemia delle immagini. Ma anche quella palpabile atmosfera di magia che il buio ogni sera porta con sé. E sono epifanie di creature della notte quelle che accendono le sale di Palazzo Blu a Pisa con la mostra Chagall e il Mediterraneo (fino al 17 gennaio, catalogo Giunti) curata da Claudia Beltramo Ceppi e da Meret Meyer. Centocinquanta opere – tra dipinti, sculture, ceramiche e tavole – provenienti dal Pompidou di Parigi, dal museo Chagall di Nizza e dal museo Matisse di Cateau-Cambrésis, in cui Chagall si dedicò allo studio della luce piena del Sud (sulla scia del viaggio in Provenza di Van Gogh) e all’esplorazione di un sentimento più calmo rispetto a quello che connota i quadri del periodo più intensamente orfico.

da left avvenimenti del 30 ottobre 2009

LE FIABE PERDUTE DI CHAGALL
Un immigrato si familiarizza con la lingua del Paese di adozione facendosi leggere  e rileggere dalla  moglie le favole di La Fontaine. Talvolta la ferma al punto in cui i poeta fa la morale. ” Questa puoi saltarla”. Poi quando ormai la conosce a memoria, la dipinge con una fantasmagoria di colori gioiosi, brillanti e sgargianti, quasi pop, che accentuano, anzi fanno esplodere l’elemento ironico, fiabesco, surreale. Lui è già un pittore famoso, non un esordiente, L’editore che gli ha commissionato le tavole, è uno dei più grandi editori dei suoi tempi. Mal gliene incoglie però. Gli rinfacciamo di tradire il più elegante,”il più cartesiano e il più lucido” dei poeti francesi del’600, una gloria della cultura occidentale, facendolo illustrare ” dalla barbarie urlata ispirata al colore di un orientale”. L’immigrato è russo. E per giunta ebreo. Che sarebbe a dire, per quei tempi, peggio che extracomunitario. Nella sua città natale, Vitebsk, ora Bielorussia, era stato registrato all’anagrafe  come Moshva (mosè) Shagal. A Parigi si sarebbe fatto chiamare Marc Chagall. L’editore per cui lavorava si chiama  Ambroise Vollard. Ha già fatto fortuna lanciando Cézanne, Matisse , Guaguin, Van Gogh e un altro immigrato. Picasso. Ma gli rimproverano di aver montato soprattutto artisti ” stranieri e semiti”. Chagall gli ha già illustrato Le anime morte di Gogol, ma con incisioni, in bianco e nero. Gli illustrerà poi, sempre con incisioni, I profeti della Bibbia. Per il progetto La Fontaine si butta invece sul colore, inventando nuovi impasti, ricchi, corposi, talvolta addirittura quasi violenti. Non sono più nemmeno i colori notturni, spenti, tristi della sua infanzia, che pure lo avevano reso celebre. Sono colori solari, che scintillano di allegria, sono i colori del paesaggio francese e del Mediterraneo, che Chagall ha appena scoperto, sono i colori di Cèzanne, di Matisse, dei Fauves, non più quelli dello shtlel, del villaggio-ghetto…. Tra il 1926 e il 1927 Chagall aveva realizzato un centinai di gauches sulle favole. Il libro a colori non sarebbe mai uscito. Non si hanno ragioni convincenti del perché. Si disse che Vollard avrebbe rinunciato perché le prove di stampa a colore non erano riuscite bene. Più tardi Chagall avrebbe ripiegato su incisioni con gli stessi soggetti. Sarà anche andata così. Ma qualcosa non quadra. La Francia continuava ad accogliere immigrati era un polo d’attrazione per gli intellettuali da ogni angolo di Europa. Ma in fatto di avversione agli stranieri tirava una brutta aria… Nell’inaugurare a Monoco nel 1937 la grande mostra “Arte degenerata”, Hitler aveva inorizzato sui dipinti con cieli verdi e mari viola, e proprio la sterilizzazione e il ricovero forzato nei manicomi dei Disgraziati che spingono così perché vedono le cose così, Tra le 730 opere forzosamente  sequestrate e additate all’infamia c’erano diversi Chagall….

( estratto da Le fiabe perdute, Chagall, di Sigmund Ginzberg da la Repubblica)

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