Trittico spagnolo
Posted by Simona Maggiorelli su marzo 12, 2011
di Simona Maggiorelli
E’ uno scherzo davvero crudele quello che i due curatori della grande mostra che si apre il 12 marzo in Palazzo Strozzi a Firenze hanno giocato a Joan Mirò e a Salvador Dalì, costringendoli a un confronto serrato, dal vivo, con il genio malagueño.
La tesi di Eugenio Carmona e di Christoph Vitali è che i tre artisti, per quanto appartenenti a generazioni diverse, abbiano avuto comuni radici iberiche, analoghi incontri parigini (in primis con il gruppo dei surrealisti) e, soprattutto, che tutti e tre siano stati mossi da una fortissima esigenza di aprire una nuova strada nell’arte del Novecento.
«La pittura del XIX secolo fu fatta in Francia dai francesi» scriveva, non a caso, Gertrud Stein ad incipit del suo Picasso (Adelphi). E subito aggiungeva: «Ma nel XX secolo la pittura fu fatta in Francia da spagnoli». Lo svizzero Vitali e lo spagnolo Carmona sembrano aver sposato in tutto e per tutto questa affermazione della scrittrice americana tentando di inverarla in questa mostra Picasso, Miró, Dalí. Giovani e arrabbiati: la nascita della modernità costruita intorno a un prezioso nucleo di sessanta opere della produzione giovanile di Picasso e intorno ad un centinaio di schizzi picassiani provenienti da musei spagnoli, dal Metropolitan Museum e da collezioni private.
Ma se è lapalissiano che Picasso Mirò e Dalì ebbero una formazione catalana, se è vero che tutti e tre rifiutarono la pittura d’accademia (Dalì si fece addirittura buttar fuori dall’istituto dove studiava), percorrendo le cinque sezioni di questa mostra fiorentina è difficile ricacciare indietro il pensiero che non tutte le ribellioni sono uguali e che il risultato qui si calcola nella lunga, lunghissima, distanza che si apre fra creazione di immagini nuove e banale scimmiottamento, anche quando travestito da divertente sberleffo. Nel primo caso, quello della creazione d’immagine, Picasso indubbiamente docet e, di fatto, assai spenti e di maniera appaiono in confronto i tentativi dei due artisti più giovani di rincorrerlo sul terreno di nature morte cubiste e di ritratti che vadano oltre il realismo.
Comunque sia, passando in rassegna diligentemente ogni tappa del percorso che ci viene qui proposto, il viaggio della mostra comincia dall’incontro con Picasso fantasticato da Dalì e che, stando all’autobiografia di Avida Dollars ( come amava firmarsi Dalì), sarebbe avvenuto nel 1926. Ed ecco pararsi davanti a noi la sagoma vuota dell’Arlecchino ideata dal giovane surrealista messa a confronto con la presenza enigmatica e vibrante dei Saltimbanchi di Picasso dipinti all’inizio del Novecento e poi replicati in varianti (più stancamente) nelle scenografie di Parade, lo spettacolo realizzato con i Ballets russes di Diaghilev di cui si fece mentore Jean Cocteau.
Da un lato, dunque, una figura astratta l’Arlecchino di Dalì che non rimanda nulla oltre se stessa, dall’altra i Due saltimbanchi del 1901 di Picasso, un’immagine “onirica” che cattura lo sguardo, che ha forza magnetica, evocativa e che non si smetterebbe mai di interrogare. Un’opera giovanile e già estremamente matura come del resto era già il Vecchio con mantello che Picasso dipinse 1895 , un eccezionale prestito proveniente da Malaga.
Il secondo faccia a faccia è poi quello che, riavvolgendo il nastro del tempo, la mostra inscena fra Mirò e Picasso. In questo caso l’incontro avvenne davvero e fu nel 1917. Mirò all’epoca stava cercando di superare un passato classicamente figurativo ma con risultati che non lo lasciavano soddisfatto. In quel contesto, folgorante fu per lui l’epifania di Parade e l’incontro, attraverso Picasso, con il surrealismo. Ma se per il genio malagueño la divagazione surrealista fu solo una parentesi, una “breve caduta”, per il più giovane Mirò fu un approdo pressoché definitivo. «Il surrealismo mi ha aperto un universo che giustifica e placa il mio tormento» annotava lui stesso. E vennero le tante fantasmagorie di esseri primordiali, una mitologia al tempo stesso giocosa e lugubre, universi popolati da organismi simil-biologici e una forma tragica di umorismo che diventò la cifra stessa della pittura di Mirò, come ci ricorda anche questa mostra fiorentina. Poi il nastro della storia si riavvolge ancora e, quasi magicamente, ci ritroviamo agli esordi di Picasso, con opere nel più chiaro segno della tradizione spagnola e di grande virtuosismo (vedi il Chierichetto del 1896 che non solo simbolicamente apre e chiude la mostra) e che ci raccontano dei primi passi di un genio che già da ragazzino padroneggiava la tecnica pittorica alla perfezione. E sembra quasi impossibile che nell’arco di soli dieci anni quel pittore spagnolo di eccezionale perizia sia diventato il geniale artista de Les Demoiselles d’Avignon (1907). Un’opera rivoluzionaria che letteralmente cambiò il corso della pittura del Novecento e che questa mostra di Palazzo Strozzi (con gli approfondimenti del catalogo Skira che l’accompagna) permette di seguire in tutte le fasi preparatorie grazie all’esposizione dell’intero Cahier numero 7, eccezionale prestito del Museo della casa natale di Picasso a Malaga. Di fatto un banale quaderno per le scuola che Picasso contrassegnò con un disegno di uccello in copertina e in cui si divertì ad abbozzare l’Abc della pittura del nuovo secolo. Compaiono qui straordinari nudi di donna, per quanto solo accennati e disegni più compiuti in cui Picasso sperimentava la scomposizione della figura alla ricerca di un’immagine più sintetica e profonda. Ma anche nudi in coraggiose e inedite prospettive plurime e simultanee.
da left-avvenimenti
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