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Posts Tagged ‘Premio Vallombrosa von Rezzori’

Vivere e morire al tempo dei narcos

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su giugno 21, 2010

Si assegna questa sera a Firenze il Premio Vallombrosa Von Rezzori. Hector Abad è finalista con il libro che narra la storia di suo padre, un medico  e attivista dei diritti umani assassinato a Medellin dagli squadroni della morte

di Simona Maggiorelli

Hector Abad

Nei mesi scorsi il giornalista e scrittore Hèctor Abad ha sostenuto la campagna del Verde Antanas Mockus alle presidenziali della Colombia, perché dice «Mockus non è solo eminente professore, ma anche un cittadino stanco della politica corrotta, della violenza mafiosa, guerrigliera o paramilitare». E non si tratta solo di un intellettuale un po’ sognatore. «Come sindaco di Bogotà – prosegue Abad – Mockus ha dimostrato che le cose possono cambiare. Infatti durante il suo mandato di sindaco la violenza nella capitale della Colombia si è ridotta dei due terzi». Figlio di Héctor Abad Gómez, medico e attivista per i diritti umani assassinato nel 1987 dai paramilitari, Héctor Abad qualche anno fa ha deciso di raccontare la straordinaria vicenda umana e civile di suo padre, attingendo alle memorie di quando lo scrittore, oggi poco più che cinquantenne, era un bambino e un ragazzo. «Scrivere sul proprio padre non è cosa facile – racconta -. Ancor meno se non c’è più. E meno che mai su un padre famoso trucidato da uno squadrone della morte in una strada di Medellín a pochi giorni dalle elezioni locali in cui avrebbe dovuto correre come sindaco». Di fatto, da questa esperienza di scrittura difficile e dolorosa, ne è uscito un libro appassionato, a tratti persino comico (specie quando stigmatizza le vicende di sagrestia e della zia suora), nell’insieme straordinariamente vitale. Si tratta de L’oblio che saremo tradotto e pubblicato l’anno scorso da Einaudi, ora finalista del Premio Vallombrosa Von Rezzori che verrà assegnato stasera a Firenze. Un premio dalla lunga storia che quest’anno, accanto ad Abad, presenta autori in gara da angoli diversi e lontani del mondo: dal vietnamita Nam Le con il romanzo I fuggitivi (Guanda) al francese Echenoz con Correre (Adelphi), da Percival Everett, Ferito (Nutrimenti) a Rose Tremain, In cerca di una vita (Tropea). Questa mattina alle 11, intanto, Abad sarà alla Feltrinelli di Firenze per parlare del suo libro. Un romanzo del quale Fernando Savater ha scritto sul Pais: «Bellissimo e commovente, e al tempo stesso la testimonianza di un reale impegno civile per la democrazia e la tolleranza». E, al di là di ogni facile retorica, El olvido que seremos (questo il titolo originale del romanzo ispirato a un verso di Borges) è davvero straordinario nel mettere insieme la precisione storica di un memoir con il ritmo narrativo, l’icasticità e l’inventiva del romanzo. Raccontando la propria infanzia, gli affetti, le prime esperienze, la curiosità e le scoperte di un bambino e poi la sua formazione di adolescente e giovane uomo, Hector Abad ripercorre un ventennio di storia della Colombia, gli anni Settanta e Ottanta, dove persone come Héctor Abad Gómez che si battevano per un Paese democratico e moderno in difesa dei diritti umani, dell’istruzione, del diritto alla salute dovevano sostenere uno scontro ferocissimo con politici reazionari e sodali dei narcotrafficanti. «Mio padre, come tanti liberali lottava per il bene del Paese – ricorda lo scrittore -. Nonostante questo, o forse proprio per questo, è stato ucciso. Ufficialmente da una banda di paramilitari. Ma i mandanti sono da cercare fra quei politici che aveva denunciato».

dal quotidiano Terra 18 giugno 2010

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Martin, il filosofo del führer

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su Maggio 23, 2008

feinman1Finalista del Premio Vallombrosa von Rezzori lo scrittore argentino José P. Feinmann parla del suo romanzo verità

di Simona Maggiorelli


«L’ombra di Martin Heidegger aduggia tutta la filosofia dell’Occidente, impedisce di pensare liberamente. È una scena della distruzione dell’umano quella che si profila dal punto di vista del pensiero. Basta dire che Foucault, Deleuze, Guattari e Derrida furono suoi “allievi”. E che tutta la filosofia nordamericana di oggi è dominata da Heidegger». Così lo scrittore argentino José Pablo Feinmann nella serata finale del premio Vallombrosa von Rezzori a Firenze, racconta l’idea e i motivi che lo hanno portato a scrivere un romanzo filosofico sull’autore di Essere e tempo. Un libro, L’ombra di Heidegger (tradotto e pubblicato in Italia da Neri Pozza) che alla forza argomentativa di un saggio aggiunge l’appeal della narrazione romanzesca. Contenendo, come ogni opera letteraria che si rispetti, molte più intuizioni di quante si riescano a sfiorare nell’arco di un’intervista. Tentando in filigrana, pagina dopo pagina, un’indagine delle radici naziste del pensiero heideggeriano. Non accontentandosi, l’autore, di ricostruire i fatti che portarono Heidegger a aderire al nazismo e a pronunciare il famigerato discorso del ’33, quando accettò di diventare rettore nel nome di Hitler.
Professor Feinmann, Heidegger attaccava la modernità dicendo che è «un’età in cui crescono i deserti devastati della tecnica». Eppure, lei dice, il suo pensiero è dominante oggi negli Usa. Come si spiega?
Penso che questo origini da un problema intrinseco agli Stati Uniti che hanno due culture: una accademica che ha fatto suo il pensiero di Heidegger e la critica della tecnica, e l’altra bellica, che ha fatto della tecnica una efficace macchina di distruzione. E alla fine il problema bellico degli Usa non mette in questione il pensiero di Heidegger. Anzi, lui avrebbe potuto dire: è il mio pensiero realizzato, questa tecnica distruggerà il mondo. Per il filosofo tedesco la tecnica è «l’oblio dell’essere», siccome però nessuno vede come è fatto l’essere secondo Heidegger, allora rozzamente si potrebbe dire che per lui la tecnica è l’oblio di tutto ciò che ci avvicina al divino. Insomma, va ben oltre Cartesio, il quale continuava a porre l’uomo come soggetto davanti al mondo.
E la tecnica con cui il nazismo praticò lo sterminio?
Heidegger credette di vedere nel nazismo una relazione diversa con la tecnica. Che poi non c’era. Questa tecnica del nazismo diventò, appunto, la tecnica dei campi di sterminio. Ma c’è un altro fatto. Heidegger, eludendo Marx, criticò il tecnocapitalismo. E qui vengo al punto. Heidegger è un moloch contro il pensiero di Marx. Nel 1966 tutti i pensatori francesi, Foucault, Deleuze Guattari, Derrida- che in questo forse toccò l’acme- sostituirono Marx con Heidegger. Il marxismo ha fallito, dissero. Abbiamo bisogno di altro. E credettero di vedere il nuovo in Nietzsche e Heidegger. Anzi,non in Nietzsche propriamente, ma nella lettura che ne faceva Heidegger.
In una nota intervista pubblicata postuma, Foucault dice che Heidegger è stato il suo maestro.
Sì, lo confessa apertamente. E questo non è vero solo per lui. Lo è ancor di più per Lacan, che arriva al livello del t1_l_ombra_di_heideggerplagio. Tutto il pensiero di Lacan, di fatto, si riduce a venti concetti presi da Heidegger. Lacan non cita, copia direttamente. Tutto questo avveniva nella sinistra francese negli anni 50 e 60. Dissero che Marx non era più necessario. Ma la cosa urgente non era liberarsi dell’autore de Il capitale, perché il comunismo, di fatto, era già caduto. E per rimpiazzare Marx che cosa avevano a portata di mano? Quello che loro ritenevano essere un grande pensatore e che, guarda caso, faceva una critica al capitalismo, anche se da destra. Nasce così una sorta di heideggerismo di sinistra. Questo è quello a cui si applica con sommo talento la filosofia francese dimenticando, negando anche l’ultimo pensatore marxista che fu Sartre. Tutta la French theory è un annullamento di Marx e di Sartre. Ma va detto che anche la scuola di Francoforte, Adorno e Horkheimer, in particolare, erano heideggeriani.
Nel romanzo, però, il protagonista prima di suicidarsi ricorda che tutti leggevano L’essere e il nulla  di Sartre. Viene da chiedersi come un pensiero progressista e di sinistra, come quello del ‘68, per esempio, poi possa essersi riferito a Heidegger che teorizza l’essere per la morte. E per la morte dell’altro, in particolare.
La filosofia francese non ha tanto ripreso da Heidegger l’idea dell’essere per la morte. Ma come dicevamo prima, piuttosto, ha ripreso la critica alla modernità capitalistica e il decentramento del soggetto. Togliere il soggetto dalla centralità porta all’idea di decostruzione. Ma in questo modo ciò che si decostruisce, soprattutto, è la storia perché si distrugge l’idea di totalità. Come effetto compaiono rivendicazioni parziali: il femminismo, la parcellizzazione del multiculturalismo, eccetera. Sparisce l’idea che il soggetto possa cambiare il mondo e se stesso.
Quello che sparisce è l’idea stessa della rivoluzione. Resta l’idea della differenza, di tutte le differenze, ma si perde quella della soppressione dell’ordine capitalista. Certamente in Heidegger non c’è la lotta di classe. E non c’è in Foucault, ce ne sono altre, diverse, c’è la rivoluzione testuale. Al di là del testo, diceva Derrida, non c’è nulla, ma al di là di Mein Kampf c’è Auschwitz. Piaccia o no a Derrida.
In Italia, come del resto in Francia, Heidegger continua però a essere intoccabile per l’establishment filosofico…
Emmanuel Faye ha apportato nuovi documenti. Hanno provato a distruggerlo. Heidegger è onnipresente. In Francia, in particolare, sembra che non possano pensare senza di lui.
Nel suo suo libro il protagonista dice: «Non pensavo al destino metafisico del nostro popolo in base al Mein Kampf, bensì in base a Heidegger». Come si può dire di un filosofo: è nazista ma è un grande pensatore?
«È una sorta di schizofrenia. Hannah Arendt stessa diceva che Heidegger aveva i suoi momenti di assenza, diceva che a volte era come come Anassimandro che camminava guardando per aria e cadde in un pozzo. Alcuni dicono, invece, che il suo dirsi nazista era solo un fatto burocratico. Sono dei negazionisti. Negano le prove, l’evidenza. Non ci sono solo i documenti di Faye, ma anche quelli pubblicati da molti altri a cominciare da Victor Farias. Che è un filosofo, per giunta sudamericano. Un uomo del Terzo mondo che detronizza il genio della filosofia tedesca. Un colpo al cuore dell’Occidente.
Nel suo romanzo si racconta anche il rapporto devastante che Heidegger ebbe con Hannah Arendt.
Sì, Heidegger ne fece la sua amante. Non abbandonò mai sua moglie per lei. Molto vile in tutto questo. Lo posso ben dire io: un certo giorno sono tornato a casa e ho detto a mia moglie, me ne vado con un’altra. Heidegger si comportò da vile borghese. Nonostante tutto questo Hannah Arendt torna da lui dopo la guerra.
Era superiore a lui, dice qualcuno.
Certamente. Ma davanti a lui non si azzardava nemmeno a dirsi filosofa. Si diceva pensatrice politica. Era irretita da Heidegger. Che peraltro aveva cercato di sbolognarla a Jaspers, indirizzandola a studiare con lui. Dopo tutto questo lei decide di tornare da Heidegger. Questa è la fine del femminismo. Stabilisce una complicità continua con lui e dopo la guerra lo aiuta anche.
Scrivere un romanzo è un modo di uscire dalla gabbia della filosofia occidentale che, in fondo, è stata sempre e solo logos?
Scrivo romanzi, in realtà, perché mi piace molto. Adesso per esempio mi occupo di un detective di Los Angeles che si chiama Carter. E’ un detective privato e assassino, fanatico, sessista e razzista, odia i negri, meno gli indiani perché abitavano quella terra prima di lui. I musulmani no, non li odia, ne ha paura. Per andare a fondo nell’analisi della paranoia dell’impero nordamericano questo personaggio mi dà molte più opportunità di un saggio di mille pagine. Left 21/08

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