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Frida Kahlo e il suo doppio

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su aprile 25, 2014

Frida Kahlo The two Fridas 1939

Frida Kahlo The two Fridas 1939

Frida come dea azteca. Come un’icona india. Pagana e insieme cristiana, immagine sincretistica di tutte le religioni. Come raccontano i tanti simboli e gli oggetti di culto di cui amava ornarsi e circondarsi. Il tronco eretto, la schiena tenuta dritta da un busto che la ingabbiava a forza, dopo che un terribile incidente d’autobus le aveva spezzato la ossa. La sofferenza, il dolore, i gravi problemi di salute accompagnavano Frida Kahlo già dall’infanzia a causa di una poliomielite. Ma quell’accanirsi del destino sul suo esile corpo, invece di distruggerla, fu il motivo di un suo più forte attaccamento alla vita; fu la molla che la spinse ad una ricerca continua nell’ambito della pittura, ma anche nei rapporti umani.

Come racconta magistralmente Jean -Marie Le Clézio nel libro Diego e Frida (ora pubblicato in Italia da Il Saggiatore) quella sfrontata dodicenne che si era presentata a Diego Rivera mentre lui stava affrescando la parete della scuola, ancora giovanissima, anni dopo, riuscì a “catturare” questo gigante, impenitente donnaiolo, che già era un simbolo della rivoluzione messicana con i suoi murales.

Lui aveva 44 anni e veniva da Parigi dove aveva condiviso l’avventura dell’avanguardia con Picasso,Braque e altri artisti di primo piano. Lei, di anni, ne aveva 22 e veniva da un mondo provinciale e da una famiglia dominata da una madre bigotta. Ma Frida riuscì a sedurlo con quel suo sguardo bruciante, acuto, che scruta e interroga l’interlocutore come si vede nei suoi tanti autoritratti. Una bella scelta è esposta nelle Scuderie del Quirinale a Roma, nella antologica Frida Kahlo ( aperta fino al 31 agosto, catalogo Electa): la più ampia e articolata retrospettiva dedicata alla pittrice messicana in Italia. E che ha il merito di raccontare – intercalando opere e documenti d’epoca – il percorso dell’artista che passava con disinvoltura dalla pittura, al disegno, alla fotografia. Sempre con un piglio naif, di fresca e graffiante immediatezza. E se negli eleganti scatti fotografici si coglie il fascino che su di lei esercitò la fotografa comunista Tina Modotti con la sua estetica raffinata e popolare, nelle tele dai colori caldi e sgargianti, fortissima appare l’influenza dell’arte india, pre colombiana e di altre tradizioni autoctone latino americane, combinata con un certo gusto surrealista per le scene inquietanti, da incubo, trascritte in modo iperrealista.

Dominante nella pittura di Frida è anche il tema del doppio, dell’immagine allo specchio, del travestitismo, dell’ambiguità e dello scambio continuo fra maschile e femminile. Frida con i baffi, Frida in versione cristologica con una collana di spine, Frida immobilizzata da una gorgiera da imperatore. Ma anche Frida bambola di nastri e velluti, carica di gioielli etnici e sinistramente piatta e immobile. E’ spietata e crudele, anche con se stessa, Frida Kahlo che in quadri “sanguinanti” grida tutto il suo dolore. Sempre alla ricerca di una via di fuga dalla realtà quotidiana, anche attraverso il sogno della rivoluzione. Che infiammò il Messico tra il 1923 e il 1933. Una rivoluzione che aveva lo sguardo selvaggio ed eroico di Francisco Villa ed Emiliano Zapata e che trovò nell’arte dei muralisti i suoi più grandi narratori. (Simona Maggiorelli)

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Messico e rivoluzione nell’arte

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su settembre 19, 2013

Diego Rivera

Diego Rivera

Quando parliamo della grande svolta dell’arte occidentale che avvenne negli anni Dieci del Novecento ci riferiamo alla Parigi cubista, al genio di Picasso, oppure all’astrattismo del cubo-futurismo russo o al più al Cavaliere Azzurro di Kandinsky in Germania. Raramente pensiamo a un altro tellurico epicentro del cambiamento quale fu il Messico negli stessi anni. Dove l’avanguardia di artisti come Diego Rivera, David Siqueiros e José Clemente Orozco s’incontrava con la rivolta sociale, con la rivoluzione contadina da Zapata in poi.

Il risultato in pittura non fu solo la creazione di giganteschi murales che riuscivano a parlare anche alle persone meno istruite senza scadere nella banale propaganda. Ma furono anche quadri di grande forza espressiva che, in modo originale riuscivano a far incontrare la ricerca più innovativa con la tradizione modernista, talora evocando anche memorie antiche dell’arte pre-colombiana.

Pensiamo a quadri come Ballo a Tehuantepec (1928) dello stesso Rivera, accesi da una tavolozza di terre rosse e toni solari dove campeggiano figure scultoree di donne e uomini che danzano, oppure ai quadri volutamente primitivisti e picareschi di Chavez Morado che rappresentano contadini e lavoratori che lottano per i diritti di tutti in atmosfere senza tempo, quasi da poema antico. Sono straordinarie scene di un’epica messicana e popolare quelle che ci vengono incontro lungo il sorprendente percorso della mostra Messico una rivoluzione nell’arte 1910-1940 aperta fino al 29 settembre alla Royal Academy di Londra.

Una esposizione in cui spiccano perle nere come l’autoritratto di Frida Khalo, la compagna di Rivera, che in pittura seppe fare del suo corpo sfregiato e ferito a causa di un grave incidente una vibrante immagine di bellezza e di selvaggia femminilità.

Ma ecco anche le Donne di Oaxaca (1927) , una teoria di figure colorate e “antiche”, quasi greche, della pittrice Henrietta Shore, flessuose come giunchi sotto il peso delle bottiglie che portano in testa; femminili nel movimento eppure senza volto, come certi contadini anonimi e al tempo stesso “universali” dipinti da Van Gogh.

Mani di Tina Modotti

Mani di Tina Modotti

Particolarmente coinvolgente è anche la parte documentale e fotografica di questa mostra londinese, scandita da locandine e pagine di giornali d’epoca ma anche da celebri scatti di maestri della fotografi come Paul Strand, Robert Capa e Henri Cartier Bresson che attraversò il Messico in lungo e in largo per raccogliere scene di vita in strada. Naturalmente ritroviamo qui anche le ruvide mani dei lavoratori che Tina Modotti seppe immortalare in stampe seppiate e altamente poetiche ma anche la selva di cappelli che caratterizza i suoi celebri Lavoratori che leggono El machete (1929). Meno noti sono invece certi scatti messicani di Edward Weston, allora amante della fotografa italiana, fra i quali un ritratto dello scrittore D.H. Lawrence, dallo sguardo bruciante contro l’immenso cielo messicano. E che ci ricorda la straordinaria fascinazione che la rivoluzione messicana esercitò su un‘ampia cerchia di intellettuali, artisti e scrittori europei. ( Simona Maggiorelli)

Dal settimanale left-avvenimenti

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