Dopo l’orinatoio di Duchamp nulla nel mondo dell’arte è stato più lo stesso. Forse non immediatamente. Ma certo quando il ’68 elesse a maestro quell’ombroso surrealista che aveva fatto della bizzarria, dello choc, del non-sense la propria cifra.
Quell’orinatoio decontestualizzato e messo nella teca di un museo diventava altro, acquistava nuovi significati, diventava oggetto di culto per quel pubblico dell’arte contemporanea che dal MoMa, al Pompidou, alla Tate celebra i riti del postmoderno. Parafrasando Benjamin, nel 2006 Alessandro Dal Lago parlava di artisti «mercanti d’aura».
A portare alle estreme conseguenze il dettato surrealista di Duchamp sarebbe stato, come è noto, Andy Warhol con la sua celebrazione delle merci e del consumismo, con la sua «trasfigurazione del banale» (per dirla con Arthur Danto) a uso e consumo della middle class americana.
E se con Duchamp l’arte era “finita al cesso” e con Manzoni, più ironicamente, era diventata Merda d’artista, è con la serialità asettica della factory di Warhol che diventa celebrazione dell’ordinario, barattolo, detersivo. Nessuno sguardo critico, nessuno scarto dalla norma, nessuna ombra di fantasia fa capolino dietro il suo Brillo box.
L’arte appare normalizzata, anestetizzata, ridotta alla piatta superficie. A gadget milionario. Come le bambole gonfiabili di Koons che troneggiano in molti musei d’Occidente o come gli squali in formaldeide di Hirst. Esempi che ritornano nel nuovo libro di Dal Lago, L’artista e il potere (Il Mulino), scritto con Serena Giordano.
Un saggio in cui il filosofo usa un approccio multidisciplinare per analizzare come è cambiato nei secoli il rapporto fra artisti e potenti committenti: in passato re, signori, papi e oggi imprenditori e tycoon che impongono sul mercato opere che nascondono la propria natura di spot sotto lo smalto della provocazione, del gigantismo, della trovata. Talora volutamente disgustosa.
Come l’autoritratto in sangue coagulato di Marc Queen o le gigantesche feci in travertino collocate qualche anno fa nel centro di Carrara da Paul McCarthy, in occasionr della Biennale di scultura. Ma se tutto ciò è giudicato arte e finisce nelle Biennali e se da Warhol in poi viviamo in una dimensione artistica diffusa, perché invece di subire questo mainstream concettuale capziosa e autoreferenziale non potremmo invece scovare vitali tracce d’arte in ambiti che non hanno del tutto perso di vista l’umano? Certamente nell’architettura come arte di abitare, ma forse anche nel design e – perché no?- anche nella cucina, come invita a fare il filosofo Nicola Perullo nel libro La cucina è arte? (Carocci).
In cui il docente di Estetica all’università di Pollenzo parla di cucina come saper fare, come téchne, ma anche come arte conviviale, che invita a incontrarsi intorno a un tavolo. Fuori dalla moda degli chef-star e dai tentativi di imitazione degli stili delle avanguardie con il food design, Nicola Perullo invita a riflettere su quando e come la cucina possa essere arte, proprio in base alle sue caratteristiche specifiche nutrizionali, di gusto, relazionali. L’autore ne discuterà con i filosofi Michaela Latini e Stefano Velotti mercoledì 25 giugno alle 18 nella libreria Ibs, in via Nazionale, a Roma. (Simona Maggiorelli)
dal settimanale left