La polis, falso mito democratico
Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 26, 2012
In Grecia solo alcuni uomini erano liberi. Donne, bambini e immigrati non lo erano. Ma l’Occidente ha ricostruito ad hoc un passato in cui specchiarsi. «Inventando pericolose radici per giustificare il presente» dice il filologo Maurizio Bettini, che il 29 settembre presenta i suo ultimo libro Contro le radici alla libreria Amore e psiche di Roma
di Simona Maggiorelli
La polis come modello di democrazia. L’agorà come spazio pubblico e civile. Topoi che ritornano nel dibattito culturale. In questa Italia dove poco si legge mentre i festival colti fioriscono in ogni dove. Affollatissimi. Da Modena a Sarzana a Torino dove, ora, le Settimane della politica invitano a riflettere proprio su «il ritorno della piazza». (Anche come luogo di rivolta, come abbiamo visto in Nord Africa). Fuor di metafora, per tornare a interrogare la parola agorà nel suo vero significato storico, abbiamo rivolto alcune domande al filologo e grecista Maurizio Bettini, autore – con Mario Vegetti, Eva Cantarella, Valentina Gazzaniga, Maria Michela Sassi e un nutrito gruppo di giovani studiosi – del volume La Grecia (EncycloMedia), un libro di oltre mille pagine che esplora il mondo antico sotto molteplici aspetti: filosofia, diritto, letteratura, storia, medicina, sessualità, arte, musica e molto altro.
Professor Bettini, la polis coincise davvero con l’invenzione della democrazia? Ne La Grecia lo storico Marco Bettalli scrive che la polis non fu affatto una struttura che permetteva agli uomini di essere liberi. Ma solo ad alcuni uomini.
E’ curioso come, nel linguaggio corrente, si usi l’espressione “inventare” a proposito di fenomeni come la democrazia o addirittura la libertà di pensiero. Quasi si stesse parlando dell’aspirapolvere. Certe cose non si inventano, si tratta di fenomeni che si formano progressivamente e che non nascono in un solo luogo. Il fatto è che leggiamo poco, o meglio, amiamo leggere solo cose che ci confermino in quel che già pensiamo. Per quel che riguarda la democrazia si ripete gloriosamente che è nata ad Atene. Eppure un bellissimo volume curato da Marcel Detienne, Qui veut prendre la parole?, ha mostrato chiaramente che pratiche di tipo assembleare, con pubbliche decisioni, sono esistite ovunque, dall’Africa a Giappone medioevale, e che fra tutte queste diverse forme di organizzazione pubblica ci sono scarti e sfumature di grande interesse. Il fatto è che a molti fa piacere pensare che siano stati i Greci a “inventare” la democrazia per il semplice fatto che (così crediamo) i Greci siamo noi, i Greci sono i nostri padri e antenati e di conseguenza siamo noi occidentali che siamo i legittimi detentori della democrazia. E’ sempre il solito gioco di ricostruirsi le tradizioni a proprio uso e consumo, non perché ci interessi veramente capire il passato, ma perché vogliamo giustificare il presente.
Eva Cantarella nel vostro libro ricorda che le donne non partecipavano alla vita dell’agorà. In una società in cui i cittadini si formavano nella «paideia omoerotica», lo spazio pubblico era teatro per soli uomini?
Certo, lo spazio pubblico era riservato ai soli uomini: e non solo perché i Greci praticavano l’omoerotismo, ma perché ad Atene solo i maschi adulti e figli di cittadini entrambi ateniesi potevano avere un ruolo nella vita pubblica. Donne, bambini, schiavi, meteci (ossia persone provenienti da fuori Atene) non godevano di questo diritto. Come diceva Saint-Just: «i diritti dell’uomo avrebbero causato la rovina di Atene o di Lacedemone».
I Greci non si definivano politeisti. Fu il filosofo Filone di Alessandria a coniare il termine, lei nota. C’era un elemento di laica apertura mentale nell’accogliere nell’Olimpo greco le divinità di altri popoli?
Filone, vissuto nel I d. C. ad Alessandria, usa il termine «polytheia» per rivendicare, contro la pluralità degli dei greci, l’unicità del dio ebraico. I Greci insomma non si sarebbero mai definiti “politeisti”, ma semplicemente religiosi: poteva chiamarli “politeisti” solo una persona che apparteneva a una cultura altra, diversa, e quindi li guardava da fuori. Le parole hanno spesso una storia interessante. Il termine “monoteismo”, ossia culto di un solo dio (monos e theos), non è greco, e neppure giudaico, ma moderno. Fu coniato dal filosofo inglese Henry More, alla fine del Seicento, per contrapporre il cristianesimo sia al “politeismo” pagano, considerato una forma di ateismo, sia però anche alla religione ebraica. Il fatto è che il monoteismo, per sua natura, è esclusivo («non avrai altro Dio al di fuori di me»). Del resto Dio noi lo scriviamo con la maiuscola, la sua esclusività è diventata anche una regola grammaticale. E i risultati di tutto ciò in questi duemila anni si sono visti. Anzi, purtroppo si continuano a vedere. Il monoteismo impone che un solo dio sia quello “vero”, tutti gli altri sono “falsi” dèi (Idoli, demoni, imposture) e vanno perciò combattuti. Al contrario per i Greci gli dèi erano tanti, a tal punto che non li si conosceva neppure tutti, e come tali anche gli dèi degli altri meritavano rispetto: anzi, le divinità si potevano “tradurre” le une nelle altre, per questo, ad esempio, Erodoto poteva dire che gli Sciti chiamavano Zeus “Papaios”. Non diceva che Papaios era un ‘falso’ Zeus. Ma certo non si potrebbe dire che i musulmani chiamano Allah il Dio dei cristiani: o l’uno o l’altro.
Il valore de La Grecia si deve anche al suo carattere multidisciplinare. Quanto è importante scrivere una storia della Grecia antica che la metta in relazione con quella di altri popoli, per esempio del Vicino Oriente, anche per comprendere la complessità delle cosiddette radici europee?
Certo, è fondamentale. Negli studi sulla cultura greca lo si sta facendo da un paio di decenni. In questo stesso volume di Encyclomedia vi sono del resto tantissimi rimandi alle civiltà del Vicino Oriente, a cui la civiltà greca deve molto. Per quasi due secoli, dagli inizi dell’Ottocento, si è voluto fare dei Greci una civiltà separata, miracolosa, che non doveva nulla a “semiti” o egiziani, considerati come appartenenti a una razza inferiore. Curtius sosteneva addirittura che i Greci erano in realtà degli invasori germanici che, scesi nella penisola e trovandosi sulle sponde di un mare caldo e meraviglioso, avevano potuto sviluppare a meglio il loro genio. Fantasie dotte, al solito, giochi di ricostruzione della tradizione culturale a vantaggio di interessi e ideologie del presente. A questo proposito ho scritto un libretto Contro le radici, appena uscito dal Mulino, in cui io ho voluto mettere in evidenza quanto sia non solo fuorviante, ma anche in certi casi pericoloso, giocare a questo gioco delle ‘nostre radici’: classiche, cristiane, giudaico-cristiane o classico-cristiane che siano.
da left-avvenimenti 26 maggio 2012
Rispondi