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Il ministro Carrozza: “Un nuovo patto con i giovani”

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su settembre 29, 2013

Il minsitro Maria Chiara Carrozza

Il minsitro Maria Chiara Carrozza

Dopo anni di tagli il governo ricomincia a finanziare la scuola, università e ricerca. “Non è una spesa, è una promessa di futuro. ma resta ancora molto da fare. parla il ministro dell’Istruzione e della ricerca Maria Chiara Carrozza

di Simona Maggiorelli

Laureata in Fisica, esperta di biotecnologie, Maria Chiara Carrozza ha insegnato alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, di cui è stata rettore. Da quattro mesi è ministro dell’Istruzione del governo Letta. Esponente dei Democratici – alle Politiche Bersani la inserì nel suo “listino” – ha guidato il forum Università e Ricerca del Pd. Nonostante le ristrettezze nel bilancio pubblico, sta provando a invertire
la rotta. Quella che l’Itala segue  da anni: tagli  delle risorse e scarsissima valorizzazione delle competenze.

La scienziata del Cern Fabiola Gianotti, a capo di uno dei due esperimenti che hanno confermato l’esistenza del bosone di Higgs, dice che in Italia il precariato uccide la ricerca. Qual è il suo punto vista ministro Carrozza?

Credo che la precarietà sia uno dei fattori che spinge la maggior parte dei nostri ricercatori a cercare opportunità all’estero. Come governo ne siamo consapevoli ed è per questo che una delle nostre prime iniziative è stato lo sblocco del turnover dal 20 al 50% per le università e gli enti di ricerca. Ma occorre fare di più: credo sia necessario stipulare un vero e proprio patto con i nostri giovani e pensare ad un meccanismo più chiaro e trasparente che delinei il percorso per l’immissione in ruolo nel mondo accademico e della ricerca, nel rispetto della carta europea dei ricercatori. Serve un percorso unico, altamente selettivo, che restituisca piena dignità ai nostri ricercatori e autonomia agli Atenei nelle loro scelte. Dobbiamo anche sviluppare i sistemi di selezione nazionale come i bandi Rita Levi Montalcini che attraggono ricercatori dall’estero e consentono loro di scegliersi l’ente dove andare in servizio.

Il 2014 sarà l’anno dei ricercatori in Italia. Sta lavorando a nuovi progetti che possano rispondere alle loro aspirazioni da molti anni deluse?

Abbiamo deciso per l’anno prossimo di concentrare le risorse sui progetti a cui i giovani possano accedere. Ad esempio daremo massima priorità al bando Firb (il Fondo per la ricerca di base), che ha l’obiettivo di favorire il ricambio generazionale presso gli atenei e gli enti di ricerca pubblici, destinando le risorse al finanziamento dei progetti di ricerca fondamentale proposti da giovani che hanno appena conseguito il dottorato. Daremo una linea di indirizzo su come andranno realizzate le pubblicazioni. Diremo che verrà premiato chi ha dimostrato autonomia e indipendenza. È un sistema già adottato nell’European Research Council dove i ricercatori devono dimostrare di saper pubblicare da soli. Anche nel valore dei progetti di ricerca terremo conto dell’indipendenza e dell’autonomia dimostrate. E privilegeremo gli atenei e i centri di ricerca che hanno ricercatori come responsabili e coordinatori di progetti. I giovani devono diventare i protagonisti della riscossa.

Riportare al centro il tema della formazione è un suo impegno forte. La disoccupazione giovanile in Italia è intorno al 40 per cento. E l’ex ministro del Welfare Elsa Fornero diceva che il problema è che ci sono troppi laureati. Che anche i figli degli operai vogliono fare i dottori.

Sono convinta che l’istruzione sia il principale motore della mobilità sociale. Lo è stato nel dopoguerra in Italia, e deve tornare ad esserlo oggi, in un periodo di crisi così profonda per la nostra economia e per quella europea. Non penso affatto che nel nostro Paese ci siano troppi laureati, il problema vero in Italia sono quei due milioni di ragazzi che non studiano e non lavorano, che hanno perso fiducia nel proprio futuro e nella possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita.

Molti Paesi che stanno vivendo un momento di forte sviluppo, dalla Malaysia a Singapore, dall’Indonesia alla Corea del sud hanno scelto di puntare in primis sull’istruzione dei giovani. C’è bisogno di un cambiamento culturale nella classe politica italiana ?

Sì è così. E come governo Letta abbiamo dato il segno di una prima inversione di rotta con il via libera al Decreto ‘L’istruzione riparte’, tornando a finanziare il diritto allo studio degli studenti universitari, puntando ad abbattere i costi per i libri ed i trasporti, rilanciando un piano per le assunzioni degli insegnanti, in particolare quelli di sostegno. Non solo non ci sono stati ulteriori tagli, ma abbiamo rilanciato i finanziamenti in istruzione, pur nelle difficoltà economiche, convinti che i soldi investiti in questo settore non siano una spesa, ma una promessa di futuro per le nuove generazioni.

Se il centrodestra dice che con la cultura non si mangia, il centrosinistra non segna abbastanza la propria differenza su questi temi. Non crede che il Pd dovrebbe impegnarsi di più su battaglie culturali invece di occuparsi solo di questioni congressuali?

Il prossimo congresso del Partito democratico dovrà parlare non solo di persone ma di programmi e contenuti. Per questo scriverò a tutti i candidati alla segreteria, per chiedere loro cosa pensano della scuola italiana, della formazione degli insegnanti, della ricerca e dell’innovazione e soprattutto come intendono porre questo tema al centro della politica del Pd nel prossimo futuro. L’istruzione e la formazione devono avere un ruolo centrale nell’idea di società del Pd e sono temi cruciali per la ricostruzione di questo Paese.

In Francia il ministro Vincent Peillon ha introdotto nelle scuole, dal 9 settembre, una “carta della laicità”. Gruppi evangelici creazionisti sostengono che la Carta impedisca loro di insegnare teorie in contrasto con l’evoluzionismo. Anche in Italia la Moratti tentò di inserire nei programmi lo studio del creazionismo in alternativa al darwinismo. Che ne pensa?

Non credo che la scuola debba diventare un luogo di battaglie ideologiche, ma un luogo aperto dove le nostre ragazze e i nostri ragazzi possano apprendere e imparare a convivere con le diverse culture e tradizioni. In ogni caso non si possono insegnare teorie non fondate sul metodo scientifico.

Da molti anni in Italia non si faceva un decreto per la scuola. E da tempo non si parlava di nuove assunzioni. Il suo impegno su questo ha ricevuto apprezzamenti. Tuttavia molti problemi restano sul tavolo. Frutto di anni di tagli dei fondi e di provvedimenti sbagliati. Che dire a chi parla di abilitazioni alla deriva? E a quegli insegnanti precari che non hanno avuto nuovi incarichi? O a quelli di ruolo che dovrebbero essere incentivati ad un aggiornamento?

Sono consapevole che il decreto approvato e anche le misure a favore dell’istruzione contenute nei Dl Fare e Lavoro sono soltanto un primo passo, ma abbiamo ripreso un cammino e rimesso questi temi al centro dell’azione del governo. La scuola negli ultimi anni ha sofferto per i troppi tagli alle risorse, ma anche perché è stata privata della sua centralità, è stata allontanata dal dibattito culturale del Paese. Oggi c’è bisogno di investimenti e di progettualità nel lungo termine, che le restituiscano una stabilità e un modello nel tempo. Per questo abbiamo lanciato la Convenzione, in cui tutto il mondo della scuola sarà chiamato a partecipare, intervenire, restituire all’istruzione il ruolo che le spetta nella società italiana.

Il sapere tecnologico, lei ha sottolineato più volte, è importante nella sfida globale della scienza. Ma recenti studi hanno mostrato il fallimento di un sistema di insegnamento Usa che trascura la formazione umanistica. Alla fine, dice la filosofa Martha Nussbaum, una scuola che invita a sviluppare una razionalità strumentale, senza stimolare l’aspetto emozionale, artistico, creativo dei ragazzi fallisce anche nel suo obiettivo primario di formare bravi tecnici.

Penso che oggi sia giusto parlare di sapere, non tanto di sapere umanistico e di sapere tecnologico. Credo molto nella lezione della “antidisciplinarietà” e nella volontà, in un momento di crisi come quello che attraversiamo, di ripensare e rimescolare le nostre conoscenze, le nostre ‘scuole’, per costruire qualcosa di nuovo che abbia un tratto unificante. Dobbiamo dare un orizzonte alla nostra ricerca, soprattutto in campo umanistico, alla storia dell’arte, alla valorizzazione del nostro patrimonio, un orizzonte che sia di rinascita, di progresso ma anche di sviluppo economico per l’Italia.

Non crede che l’istruzione sia qualcosa di diverso che addestrare i giovani a rispondere a dei quiz? E che i test Invalsi possano funzionare solo limitatamente?

L’istruzione è ovviamente un percorso complesso che non si può esaurire con delle risposte ai quiz. L’obiettivo dei test Invalsi non è valutare lo studente, ma aiutarci a conoscere meglio il nostro sistema, le differenze territoriali, il livello delle competenze e darci quindi uno strumento per migliorare. Rappresentano una guida utile per un percorso dove sono e saranno sempre le persone, con il loro impegno, a fare la differenza.

Infine il tema cardine dell’integrazione. Nell’ultimo anno scolastico, gli studenti con genitori non italiani erano circa il 10 per cento: una risorsa per il Paese?

La più grande risorsa e ricchezza per i nostri ragazzi. Ho sempre detto che la nostra scuola è il primo attore dell’integrazione in Italia. Basta andare davanti ad una scuola all’ora dell’uscita per vedere in qui volti il nostro futuro, la società di domani che sarà multietnica e multiculturale. Per questo sento di dover ringraziare i nostri insegnanti che ogni giorno lavorano in silenzio e con passione per far nascere i cittadini di domani.

dal settimanale left-avvenimenti  21 settembre 2013

L’intervista è stata letta lunedì 23 settembre a Pagina 3, la rassegna stampa di Radio Tre. La puntata è riascoltabile qui: http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-18ae0c14-5a1d-4a3e-a283-8482b8f6fd45.html

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L’ora di religione

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su dicembre 22, 2005

Avvenimenti, 22.12.05

Privilegi porporati e programmi scolastici dettati dalla Cei. Dove è finito lo Stato laico?
di Simona Maggiorelli

L’inizio è nelle pagine di storia: l’insegnamento della religione cattolica fece il suo ingresso ufficiale nelle scuole italiane nel 1923 con la riforma Gentile. Una scelta rafforzata poi dal Concordato del 1929. Ora però, a più di cento anni di distanza, il ministro dell’Istruzione Letizia Moratti insiste su un inattuale ritorno a un modello confessionale della scuola pubblica. Lo raccontano l’assunzione in ruolo di 10mila insegnanti di religione varata dal governo Berlusconi e il fatto che le assenze degli studenti all’ora di religione ora vengono segnate e interpretate come penalità, eludendo il “particolare” che si tratta pur sempre di una materia facoltativa. Ma non solo. La commissione guidata da monsignor Tonini, incaricata dalla Moratti di stilare un manuale deontologico, ha appena concluso i suoi lavori e, presto, ne avremo il pensum ad uso di tutti gli insegnanti, non solo quelli dell’ora di religione. Mentre il vicepresidente del Cnr, lo storico Roberto De Mattei, con il compito di riformare la ricerca nel settore delle materie umanistiche, lancia proclami per un riscatto della società cristiana e contro i progressi della scienza, come fondatore dell’associazione Lepanto. E non si tratta, purtroppo, di un film in costume sul ritorno dei crociati. Basta andare sul sito http://www.lepanto.org per rendersene conto. Si tratta di scelte vere e pesanti, di cui si colgono già le ricadute sui programmi scolastici e sulla ricerca. Lo si è già visto con il tentativo del ministro Moratti di fare spazio al creazionismo nei programmi di biologia, ostracizzando l’evoluzionismo di Darwin. Un tentativo fermato dalle dure accuse mosse dall’Accademia dei Lincei già nell’aprile del 2004, ma poi approdato alla nomina ministeriale di una commissione presieduta da Rita Levi Montalcini e incaricata di decidere dell’utilità dell’insegnamento di Darwin, i cui documenti finali sono stati pesantemente manomessi, come aveva denunciato ad Avvenimenti il professor Vittorio Sgaramella, docente di biologia molecolare dell’università della Calabria e membro della commissione Montalcini e come racconta MicroMega nel nuovo numero “Chi ha paura di Darwin?”.
Abbiamo chiesto a Mario Staderini, insieme all’associazione radicale anticlericale.net, attento studioso di cose vaticane e autore di un libro sull’8 per mille, di raccontarcene radici e conseguenze.
«In questo viaggio, partiamo dall’insegnamento della religione cattolica all’interno della scuola pubblica – suggerisce Mario Staderini -. Si tratta di un privilegio concesso dallo Stato in base al Concordato, una norma di favore riservata alla sola Chiesa cattolica con cui si fa della scuola uno strumento di promozione di una confessione religiosa, peraltro discriminando tutte le altre».

Come si traduce in concreto?
Lo Stato è obbligato ad inserire l’insegnamento della religione cattolica all’interno dell’orario scolastico, e paga i docenti. Oggi sono circa 20mila ed è il vescovo a designarli, rilasciando (e revocando) il certificato d’idoneità in virtù di un giudizio etico e morale. C’è, dunque, un potere di controllo nei confronti di dipendenti statali da parte della diocesi e della Cei, la Conferenza episcopale, che dà le direttive.

L’intesa firmata nel 2003 fra ministero e Cei ha aggravato questa situazione?
Si è consentito alla Cei di fissare gli obiettivi dell’insegnamento, controllandone così i contenuti. Negli ultimi anni è in corso una vera e propria deriva clericale. Dopo numerosi tentativi di eludere la facoltatività dell’ora di religione, sono state approvate leggi unilaterali, come quella varata dal governo Berlusconi per l’immissione in ruolo degli insegnanti di religione. Ne sono già stati inseriti 10mila e si arriverà a 15.383 entro l’anno prossimo. Ma il Concordato non prevedeva nulla del genere.

E con quali costi per lo Stato?
Non c’è ancora una stima precisa, ma lo si può facilmente calcolare considerando uno stipendio medio di 2mila euro lordi: moltiplicato per 20mila si arriva a 500 milioni di euro a carico dello Stato ogni anno. Questo solo per gli insegnanti, senza contare il valore e le spese per le strutture.
Gli insegnanti di religione entrano nei consigli di classe. Quanto incide il loro giudizio?
Con la riforma Moratti si tenta di equiparare anche il valore didattico, inserendo la valutazione in pagella. I sindacati denunciano che, da qui al 2008, ogni tre docenti assunti dalla scuola pubblica, uno sarà di religione. La loro immissione in ruolo, poi, apre scenari paradossali: ammettiamo che non venissero più giudicati idonei all’insegnamento e revocati dal vescovo, perché divorziati o perché, supponiamo, hanno votato sì al referendum sulla fecondazione assistita, essendo di ruolo, passerebbero a insegnare quelle materie umanistiche in cui la loro formazione confessionale giocherebbe un preciso peso. Già adesso nell’ora di religione non si studiano le crociate o la controriforma, spiegandone il peso storico. Si studiano i Vangeli, la figura di Gesù e la vita della Chiesa cattolica, mentre le altre confessioni religiose sono considerate solo in rapporto subalterno a quella cattolica. È un insegnamento confessionale proprio perché segue un preciso carattere religioso e identitario. Ad esempio, tra gli obiettivi specifici stabiliti nell’Intesa vi è quello di far “comprendere che il mondo è opera di Dio”.
Con la riforma Moratti il pensiero religioso impronta i programmi di più materie?
Indubbiamente c’è un tentativo. Lo stesso Cardinal Ruini, nel messaggio di saluto per i nuovi insegnanti di religione di ruolo, disse esplicitamente che quello era il primo passo per far uscire l’insegnamento della religione cattolica da un ruolo marginale nella scuola pubblica, ed assumere finalmente un ruolo determinante nella crescita globale dei bambini e dei ragazzi. Un obiettivo che ha trovato appoggio nelle scelte del ministro Moratti e di una lunga serie di ministri cattolici che l’hanno preceduta. Gli strumenti utilizzati sono l’ora di religione, il codice deontologico dei docenti affidato al cardinal Tonini, l’ostracismo alla storia precristiana e all’evoluzionismo in biologia, così come la presenza di riti religiosi cattolici che ancora si celebrano, a vario titolo, nelle scuole pubbliche italiane. Un aumento di imput confessionali, dunque, a fronte invece di una quasi totale scomparsa dell’insegnamento dell’educazione civica. Non c’è poi da stupirsi se nel paese si va perdendo il senso civico e istituzionale, la conoscenza stessa dell’istituto referendario ad esempio, mentre aumenta, complice lo strapotere mediatico, l’attenzione ai messaggi criminalizzanti su aborto e fecondazione assistita delle gerarchie vaticane e delle associazioni integraliste. La scuola ha una precisa responsabilità.
In questo quadro, allora, è tanto più grave il finanziamento concesso dallo Stato alle scuole private cattoliche.
Al meeting di Comunione e liberazione dell’agosto 2001, il ministro Moratti affermò che non deve più esistere il monopolio pubblico dell’istruzione. Personalmente non avrei pregiudizi rispetto all’affidamento anche a soggetti privati del servizio pubblico scolastico. Il problema è che la libertà di insegnamento, negata nella scuola pubblica agli insegnanti di religione, è ancor più compressa nelle scuole confessionali. Finanziare le scuole private, in Italia, significa finanziare soprattutto le scuole cattoliche, di qui la strumentalità di questi provvedimenti. Nel 2004, il finanziamento pubblico alle scuole non statali, introdotto nel 2000 dal governo D’Alema, è stato di 527 milioni di euro. L’esenzione dall’Ici disposta dall’ultima legge finanziaria è un ulteriore tassello di una strategia per fare delle scuole cattoliche private delle scuole d’élite, in cui formare le future classi dirigenti del paese. Ma anche nell’università la situazione è privilegiata.

In che senso?

L’articolo 10 comma 3 del Concordato stabilisce che le nomine dei docenti dell’Università cattolica del Sacro Cuore (che gode di finanziamenti pubblici) siano subordinate al gradimento, sotto il profilo religioso, della competente autorità ecclesiastica. Ciò significa vincoli per i professori ed una formazione particolare per gli studenti, della facoltà di medicina ad esempio; non senza conseguenze esterne: basti pensare che il Policlinico Gemelli è parte integrante della Università Cattolica. La messa sotto tutela dell’insegnamento, dell’università e della ricerca ha sempre una ricaduta sulla vita pubblica e dei cittadini. Tanto che l’Italia si colloca agli ultimi posti nell’utilizzo della terapia del dolore, nelle garanzie per i cittadini rispetto ai medici obiettori, mentre anche l’utilizzo della Ru486 è pervicacemente ostacolato. E dal 2004 ci ritroviamo con la legge sulla fecondazione assistita più proibizionista del mondo.Ma il paese reale si ha la sensazione non sia poi così cattolico integralista come la Cei.
Infatti. Il filosofo cattolico Pietro Prini, in un suo libro, parla di “scisma sommerso” per descrivere la distanza tra la dottrina ufficiale e la coscienza dei fedeli. Ma non è detto che, con il ripetersi di politiche e strategie clericali, la distanza non si riduca.

E in Europa, c’è qualche paese che viva una situazione come quella italiana?

Sul fronte scolastico, la riforma di Zapatero sta liberando la scuola pubblica spagnola da influenze confessionali; in Germania è ancora forte la dimensione pubblica della Chiesa, così come in Portogallo. L’ Inghilterra, dove la religione anglicana è religione di Stato, ci fornisce un modello opposto: lo Stato non dà un penny alla Chiesa. Stati “a rischio”, per cosi dire, sono i nuovi paesi della Ue, specie quelli dell’ex Urss e dell’ex Jugoslavia. Il Vaticano, infatti, da anni sta conducendo una politica neoconcordataria con l’obiettivo di ottenere il riconoscimento di norme speciali.

Attraverso il meccanismo dell’ 8 per mille si finanziano le scuole religiose?

Non tutte. Con i fondi dell’8 per mille vengono finanziate facoltà teologiche e istituti di scienze religiose, nonché associazioni cattoliche come Age e Agesci, che ritroviamo poi presenti nelle commissioni ministeriali. Complessivamente, con l’8 per mille, 1 miliardo di euro finisce ogni anno nelle casse della Cei, nonostante oltre il 60 percento dei contribuenti italiani non esprima alcuna volontà in tal senso. Chi non firma l’apposito modulo, infatti, si vede prelevato comunque l’8 per mille delle sue imposte e destinato alla Cei in base alla percentuale delle scelte espresse dalla minoranza di italiani che hanno firmato. Insomma, una questione di ignoranza indotta.

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