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Il pensiero di Goya. Il libro di Todorov e una mostra a Parigi

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 1, 2014

Goya, la lampada del diavolo

Goya, la lampada del diavolo

Francisco Goya (1746 -1828), testimone del suo tempo e straordinario interprete della modernità. Così la Pinacothèque de Paris racconta il maestro spagnolo, con una mostra (aperta fino al 16 marzo 2014) che scardina  molti di quei vecchi luoghi comuni che hanno rinchiuso l’autore della Quinta del sordo nello stereotipo del misantropo solitario, immerso in visioni allucinate e inquietanti.

Con il titolo Goya e la modernità l’esposizione parigina propone un percorso che prende le mosse dai celebri ritratti dei reali di Spagna (in cui immaginazione e spietato realismo si mescolano in modo formidabile) per arrivare alle caustiche incisioni dei Capricci, pubblicati nel 1799, in cui Goya mette a segno una acuminata critica del clero e della religione, stigmatizzata come ciarpame oscurantista e ostacolo ad ogni progresso. Per arrivare poi alla serie i Disastri della guerra (1820) cui il pittore spagnolo denunciava l’oppressione dell’occupazione napoleonica iniziata nel 1808, approfittando di conflitti locali.

In questa serie di acqueforti Goya attua un totale ribaltamento dell’estetica riguardo alla guerra. Che nelle sue opere non è più glorificata come un atto di eroismo. Anzi vi appare rappresentata in tutta la sua brutalità, come insensata violenza, che non può avere mai una giustificazione politica.Con grande passione civile nei Disastri della guerra, Goya si fa cronista per raccontare la coraggiosa resistenza spagnola, che si batteva in nome di ideali umani e politici. Ed è anche nella schietta incisività di questa opera grafica che Tzvetan Todorov legge la straordinaria attenzione che Goya aveva per il suo tempo. Nel suo importante saggio, Goya, appena pubblicato in Italia da Garzanti, lo studioso bulgaro-francese traccia una biografia intellettuale del pittore raccontandolo come uno dei «pensatori più profondi» della sua epoca, «paragonabile in questo al contemporaneo Goethe o più tardi a Dostoevskij.

TodorovSulla traccia del poeta Yves Bonnefoy che alcuni anni fa scriveva del «pensiero figurale» di Goya, Todorov – esaminando dipinti, disegni e incisioni – riesce a far emergere i nuclei forti del pensiero dell’artista. Che era massimamente pensiero per immagini.«L’immagine è pensiero non diversamente da quello espresso con le parole e rappresenta sempre una riflessione sul mondo e sugli uomini», rileva acutamente Todorov. Di più: «L’immagine rivela quelle sensazioni che non richiedono parole». Riuscendo a rappresentare un pensiero che va al di là del discorso cosciente. È con questa potenza di immagine (che è pensiero profondo) che Goya riesce a farci arrivare emotivamente il suo rifiuto del disumano, sia che si manifesti in un’esecuzione sommaria, in un medievale esorcismo o in una predica che tenta di seminare terrore. «La rivoluzione pittorica di Goya appartiene ad un movimento che vede l’ascesa dell’illuminismo, la progressiva secolarizzazione dei paesi europei, la rivoluzione francese e la crescente popolarità dei valori democratici», scrive Todorov in questa sua affascinante monografia. Ma vi si iscrive senza consegnarsi all’aridità che hanno quei pensieri che hanno perso il rapporto con le immagini della notte e della fantasia.  (Simona Maggiorelli, dal settimanale left-avvenimenti)

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Büchner, bellezza amara

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 25, 2013

Wayzeck diretto da Bob Wilson

Wayzeck diretto da Bob Wilson

Rivoluzionario e a lungo incompreso, l’autore di Woyzeck è al centro di  convegni e incontri per il bicentenario dalla nascita. Non solo in Germania. In Italia si segnalano in particolare un ciclo di incontri alla Casa di Goethe a Roma e di due nuove monografie

di Simona Maggiorelli

Strano destino quello di Georg Büchner (1813 – 1837), medico, drammaturgo e scrittore dalla vita brevissima, autore di opere frammentarie quanto folgoranti, come il racconto Lenz (Adelphi), e di drammi visionari come Woyzeck (Marsilio) che solo dopo molti anni dalla prematura scomparsa dell’autore ha avuto un degno riconoscimento, entrando stabilmente nei repertori teatrali. In questo autunno in cui si ricordano i duecento anni dalla nascita di questo rivoluzionario scrittore tantissimi sono gli incontri e le occasioni di studio della sua opera. Non solo in Germania. Alla Casa di Goethe a Roma, diretta da Maria Gazzetti, un convegno e un ciclo di lezioni (che proseguono fino a gennaio) permettono di approfondire i testi di Büchner, sotto una molteplicità di aspetti. A cominciare dal rapporto fra le sue opere e la musica, affrontato dal musicologo Claudio Rostagno analizzando il lavoro di Alban Berg nel mettere in musica il Woyzeck. Per arrivare poi al rapporto fra Büchner e le arti visive, con una conferenza dello storico dell’arte Claudio Zambianchi il 29 gennaio che prenderà in esame alcune incisioni di Chagall e lo spettacolo dell’artista sudafricano William Kentridge Woyzeck on the Highveld (2008).

Appassionato di pittura fiamminga e delle sue scene di vita quotidiana (che appaiono ricreate in alcune pagine del racconto Lenz) Georg Büchner scriveva nelle lettere di amarne il gusto per la nuda verità e anche le asprezze, mentre l’armonia delle forme classiche e l’opulenza del rinascimento italiano lo lasciavano piuttosto indifferente. E una appassionata e a tratti quasi disperata ricerca della verità storica e umana è il filo rosso che lega tutta la sua breve ma intensa produzione letteraria, dal pamphlet politico Il messaggero dell’Assia, in cui incitava alla rivolta i contadini tedeschi, sfruttati e ridotti in miseria, fino a Woyzeck, la sua ultima opera ispirata a un fatto di cronaca nera: la condanna a morte del soldato Franz Woyzeck, colpevole di aver ucciso “per gelosia” la propria compagna.

Come già in Lenz, che con prosa onirica e potente racconta lo sprofondare nella pazzia del poeta Jacob M.R. Lenz (1751 – 1792), nel testo teatrale Woyzeck, il giovane medico Büchner cerca di afferrare che cosa si agita nel profondo di questo fragile soldato vessato dai superiori che alla fine diventa un assassino, tentando una comprensione poetica, “intuitiva”, del suo delirio. Per arrivare poi a fare di Woyzeck il simbolo di un’intera generazione disadattata nella oppressiva Germania della restaurazione. Come ricostruisce Barnaba Maj nella monografia Georg Büchner da poco uscita per Ediesse, Büchner, che aveva studiato a fondo la rivoluzione francese, era un giacobino che faceva attività politica clandestina convinto che una maggiore giustizia sociale potesse venire solo dalla sollevazione delle masse e non da una rivoluzione borghese. E se il linguaggio del suo Messaggero dell’Assia, come nota la germanista Vanda Perretta curatrice della buchneriana alla Casa di Goethe, «era ancora rigido e retorico, rispetto invece alla ricchezza icastica che nel 1848 sfoderò Marx, fin dall’incipit, nel Manifesto del partito comunista», in opere come La morte di Danton l’analisi politica e il linguaggio di Büchner si affinano fino a fare del teatro un penetrante strumento di indagine della storia e delle radici della violenza, facendo splendere le ragioni rivoluzionarie ma al tempo stesso scandagliandone il tragico naufragio nel terrore. Il linguaggio onirico ed evocativo, lo stile anti classico, il pathos che trasmettono le opere di Büchner furono la cifra della sua inattualità nel suo tempo, nota Simone Furlani nel saggio Arte e realtà. L’estetica di Georg Büchner (Forum editrice, 2013), ma furono anche la chiave della sua fortuna postuma.

Agli inizi del Novecento furono gli espressionisti per primi a riconoscerne il valore e ad apprezzare il “realismo visionario” della sua prosa, comprendendo che le sue deformazioni della realtà permettevano di vedere al di là delle apparenze, la realtà più profonda dei rapporti umani. E non si trattò per lui solo di una inconscia e geniale scelta artistica. Consapevolmente Büchner aveva preso le distanze dall’idealismo di Schiller e di Goethe, come appare evidente dalle sue lettere. D’altro canto, diversamente dai romantici, Büchner non inseguiva la purezza delle origini e non cercava consolazione nello spiritualismo e nella religione. («La Chiesa di pietra» e suoi dogmi saranno spesso oggetto dei suoi strali). E forse è stata questa sua originale complessità, che sfugge ad ogni facile etichetta, a regalare lunga vita alle sue opere che da Max Reinhardt a Werner Herzog a Bob Wilson continuano a trovare sempre nuovi allestimenti e trasposizioni.

dal settimanale Left-Avvenimenti

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