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Scienziato manager, con fede industriale

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su luglio 3, 2004

Il nuovo corso di Confindustria targato Montezemolo ha già rilanciato più e più volte il tema. Prima di lui il presidente della Repubblica Ciampi. E, di recente, perfino Storace a Ballarò non ha resistito all’incalzante refrain: in Italia, occorre più ricerca. Per tenere il passo con il resto d’Europa. La classe politica di centrodestra e quella economica sembrerebbero aver aperto gli occhi su temi che la sinistra, almeno a parole, sostiene da tempo.
Ma qualcosa, forse non quadra esattamente. Basta dare un’occhiata a quanto questo governo sta facendo, sotterraneamente, con lentezza, ma in modo inesorabile, per la ristrutturazione del Cnr (dopo averlo commissariato) e dei maggiori centri nazionali di ricerca.

L’importante è tagliare
Partiamo dal fondo, dalle cifre che questi tre anni di governo Berlusconi lasciano sul piatto della ricerca italiana. Solo nell’anno scorso, il taglio delle risorse è stato del 5,3 per cento. La spesa per la ricerca nel nostro paese si assesta così sui 6,9 miliardi di euro, pari cioè allo 0,7 per cento del prodotto interno lordo. E non è solo un problema di risorse risicate, ma anche mal distribuite e di un sistema di accesso alla professione di ricercatore da parte delle nuove generazioni sempre più difficoltoso. Basta dire che ormai il blocco delle assunzioni nel settore è pressoché totale, mentre l’età media dei ricercatori continua a crescere. Si calcola che nel 2017 circa il 50 per cento di ricercatori e docenti in Italia sarà messo a riposo. Per i giovani invece si prospetta un precariato sempre più spinto, affidato agli assegni di ricerca e a contratti a termine. Ma non solo. Sono anche gli ambiti della ricerca – sempre meno libera e sempre più finalizzata e legata alla produzione di brevetti – ad essere stati fortemente ridotti. La situazione del Cnr, in questo senso, è emblematica. Da pochi giorni ha dovuto lasciare il suo scranno il commissario straordinario preposto al riordino del centro, il professore Adriano De Maio, fisico della materia, nonché rettore della Luiss. Nella relazione conclusiva del 10 giugno scorso compaiono tutte le linee guida del De Maio pensiero, con a latere anche qualche affermazione inquietante, detta a voce durante il saluto alla comunità scientifica, sul fatto che, dopo due anni di tagli di cosiddetti rami secchi (all’atto del commissariamento la rete scientifica del Cnr presentava 5.000 linee di attività. Adesso sono state ridotte a circa 500 macro-linee) ci si è accorti che il Cnr versava in uno stato migliore di quanto non lo si dipingesse.
Di fatto oggi il maggior istituto pubblico di ricerca, prima ancora che questo governo renda noti gli ordinamenti che lo regoleranno e mentre ancora si apettano, a giorni, le nomine ufficiali dei componenti del consiglio di amministrazione, si ritrova suddisviso in 11 dipartimenti.
Il dipartimento – scrive De Maio, che proprio su questo punto è arrivato a scontrarsi con il ministro Letizia Moratti –  è il punto nodale della riforma: se sarà fatto funzionare nel modo migliore si otterrà finalmente un sistema di ricerca non autoreferenziale. Il che, tradotto in altri termini, vuol dire un dipartimento che non squaderna più ad ampio raggio indirizzi di libera ricerca, ma funziona su progetti.  Gli stessi ricercatori dovranno aggregarsi intorno a un progetto, perché solo quello verrà finanziato. Con un risultato immediato e evidente: i ricercatori dovranno rinunciare a una parte della propria autonomia e risulteranno più controllabili. Su questo punto De Maio è molto chiaro: Il dipartimento – scrive – gode di un potere gerarchico relativamente ai progetti… li valida, indipendentemente da dove sia partita la proposta, li valuta, ne assicura il coordinamento reciproco e con le altre aree tematiche, attribuisce le risorse complessive e ne definisce le caratteristiche complessive, tempi e risultati od obiettivi attesi, cioè decide e governa il project concept.
Riguardo ai contenuti delle ricerche, poi, alcune linee e alcuni temi risultano particolarmente caldeggiati, quelli più funzionali all’industria, ovviamente, con una forte e preoccupante contrazione degli investimenti finanziari e non solo riguardo alle cosiddette scienze umanistiche. Capitolo rovente della riforma del Cnr, dacché Letizia Moratti ha caldeggiato la nomina a subcommissario della materia, un fin qui oscuro docente di storia dell’Università di Cassino, quel Roberto De Mattei, consigliere personale di Gianfranco Fini riguardo ai temi dell’Europa e che, anche attraverso l’associazione Lepanto, si è distinto per una serie di pubblicazioni e interventi di stampo oscurantista riguardo a religione, storia e società, arrivando perfino ad organizzare una marcia “di purificazione” come risposta al Gay Pride.

I muri e i confini
Le cinta murarie e i confini degli stati nazionali hanno custodito, nel tempo, le identità culturali dei popoli. Gli stessi limiti alla circolazione delle persone, delle merci e dei capitali, nonché delle idee e delle informazioni, hanno rappresentato fattori di stabilità delle medesime identità… La riappropriazione, sempre più diffusa, di simboli identitari – la bandiera, l’inno, i luoghi della memoria nazionale – nel nostro Paese, a differenza di altri (Francia, Inghilterra), rimasti sepolti dalle macerie della guerra, ne è l’espressione di più immediata percezione. Incredibile ma vero comincia proprio così la relazione del professor De Mattei, presentata al termine di un anno di lavoro lo scorso 10 giugno. In questa occasione il professore ha anche indicato i cardini che la ricerca umanistica dovrà tenere presenti nei prossimi anni: obiettivo primario delle scienze umane sarà valorizzare la memoria storica e elaborare i diversi profili delle identità locali, nazionali e sopranazionali. Dunque: priorità del “diritto romano”, promozione e salvaguardia della lingua e della cultura italiana, ma anche e soprattutto della tradizione e del pensiero religioso, attraverso la ricerca su Fonti e testi della tradizione religiosa italiana. E questo in un momento in cui la Costituzione europea ha appena espunto il riferimento alle radici cristiane.
Da segnalare un piccolo e non trascurabile dettaglio: mentre De Maio ha già dovuto lasciare il posto al nuovo che avanza: ovvero al più giovane Fabio Pistella, De Mattei è l’unico uomo  del vecchio organico di commissariamento che non se ne va, ma anzi vede rafforzata la sua posizione.
il suo l’unico nome certo, fino ad oggi, del nuovo consiglio di amministrazione del Cnr. I ricercatori che vorranno fare libera ricerca nell’ambito della storia possono cominciare a preparare le valigie.

L’uomo nuovo che viene dall’Enea
Freddo”, “distaccato, efficiente,”un uomo pragmatico, che si sa muovere bene nell’ambito del potere, “un uomo che ha una concezione alta del potere, specie se ce l’ha lui”. Sono queste le voci che si rincorrono sul conto del neo commissario generale del Cnr, Fabio Pistella, nei corridoi dell’Enea a Roma, l’istituto di ricerca che lo scienziato ha diretto fin dal 1984, quando giovane laureato e con appena un centinaio di pubblicazioni in tasca è stato assurto al cielo della massima carica dell’istituto. Un’istituto di ricerca che allora godeva ancora di molto prestigioracconta Franco Attura, ricercatore che al centro ricerche Enea Casaccia di Roma lavora da 35 anni. Pistella è un uomo intelligente – dice – con un’impostazione manageriale. Non di tipo Cnr classico, basata sui rapporti con l’università. Ha spinto l’Enea verso le imprese, la ricerca applicata, ma per quegli anni non è stato un male. Anche perché l’ Enea ha sempre avuto, comunque sia, una parte di libera ricerca e alcuni ricercatori che facevano attività di ricerca al di là dei grandi programmi che l’Enea si dava per ragioni strategicheサ”. Progetti con l’Ansaldo e altre aziende nazionali, con la Fiat; poi la svolta, la rapida decadenza a cui hanno contribuito molti fattori – spiega Attura – compreso il taglio dei finanziamenti pubblici. Siamo arrivati al 17 per cento in meno: adesso e la situazione si sta facendo davvero critica. Dobbiamo preoccuparci noi di reperire i fondi sul mercato. Ma le industrie sulla ricerca non mettono soldi in una situazione come questa, economicamente critica. Il rischio è anche di scadimento culturale. E per i giovani ricercatori ? L’Enea non rappresenta più una meta ambita – ammette Attura -. C’è sempre meno lavoro sicuro, sempre più precariato, legato  a contratti a tempo determinato, ad assegni di ricerca. Andando avanti di questo passo – conclude – il rischio è che l’Italia esca completamente dal panorama internazionale della ricerca. I segnali ci sono già.

La politica che verrà
Se Pistella si è insediato da poco e non ha avuto ancora il tempo di uscire pubblicamente con dichiarazioni d’intenti e programmi, in filigrana qualcosa della sua impostazione è leggibile nel programma di De Maio. Spesso, infatti, è stato Pistella a scriverne i contenuti. Sua l’idea di un’organizzazione del Cnr strutturata a matrice. Pistella era, insomma, il braccio operativo dell’ex commissario generale e in qualche modo gli ha scavato sotto. Risultando più gradito all’establishment Moratti.
De Maio – spiega Paolo Saracco, segretario nazionale Snur Cgil – come commissario speciale non è andato ad occupare militarmente il Cnr, applicando in maniera secca ciò che il ministro Moratti aveva detto e scritto. L’operazione che ha compiuto è stata più sottile: un ascolto selezionato dei poteri accademici forti, cercando di riportare dentro il Cnr coloro che se ne erano sentiti esclusi, fin dai tempi dei comitati nazionali di consulenza creati quando era ministro Berlinguer. Allora – spiega Saracco – si era costituita una rete esterna di professori universitari e di scienziati sicuramente di valore e anche molto targati politicamente che De Maio ha cercato di reimpiantare sul Cnr stesso, cercando di renderlo molto simile a come era una decina di anni fa”. De Maio, insomma, si è fatto portatore di un proprio progetto, di rappresentanza di poteri forti che vorrebbero un sistema della ricerca all’americana, molto concentrato su alcuni, pochi, prestigiosi, centri di ricerca. E cercherà di farlo passare, anche ora che ha rotto con Letizia Moratti, cercando nuove alleanze, anche nel centrosinistra.

da avvenimenti, 3 luglio 2004

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Montalbano? Un comunista arrangiato

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su Maggio 7, 2002

Porta la firma di Andrea Camilleri “L’ombrello di Noè”, il nuovo saggio sul teatro by Rizzoli. E’ un libro di ricognizione e di ricordi dall’incontro con Pirandello all’insegnamento di Orazio Costa, fino agli anni trascorsi come insegnante di regia all’Accademia Silvio D’Amico
Montalbano? “Un comunista arrangiato”

E’ uno degli autori più prolifici della scena letteraria italiana, scrittore di gialli, di romanzi storici, autore di teatro e non solo. Come regista, Andrea Camilleri, ha curato la messinscena di almeno un centinaio di testi e come intellettuale ha sempre rivendicato un suo particolare impegno a sinistra, un impegno che la nuova onda di movimenti sembra aver ancor più acceso.
Basta leggere l’intervento accalorato che, di recente, ha consegnato alle pagine di Micromega sulla Primavera dei movimenti.
Fra pochi giorni andrà in libreria L’ombrello di Noè, edito da Rizzoli. L’uscita del libro ci offre l’occasione di un incontro per parlare a tutto tondo di letteratura, di teatro, di politica.

E’ un ritorno al suo primo amore, il teatro?
“E’ un libro che racconta soprattutto rapporti per me fondamentali con registi, autori, attori. Del resto il teatro è qualcosa che si fa. E da quando ho cominciato a scriverlo non faccio altro che tributare un addio a una cosa che non posso più fare. Per me il teatro è sostanzialmente un vizio”.

Un nome che ricorre spesso nelle pagine del nuovo libro è quello del regista Orazio Costa.
“Sono stato suo allievo alla scuola di arti drammatiche. A lui devo tutto. E’ stato lui a dirottarmi sul teatro ma anche a farmi capire cose fondamentali che poi mi avrebbero favorito nell’architettare romanzi e racconti. Un fatto buffo è che non sono mai riuscito a dargli del tu, per me era un genio assoluto”.

E i maestri del teatro antico, che lei spesso cita?
“Eschilo, Sofocle e Euripide sono vissuti in età diverse eppure tutti i tre avevano una profonda e uguale cognizione del dolore. Non del proprio, ma di quello altrui. Nei Persiani Eschilo chiede ai suoi concittadini di piangere non solo per i Greci morti in battaglia ma anche per i Persiani che hanno perso la vita. Ecco, questo credo sia stato per me un grande insegnamento: imparare a guardare il dolore degli altri, come fatto etico prima ancora che come fatto poetico. Non ho mai creduto che fra gli uomini si tratti banalmente di vita mea mors tua”.

Nel libro quattro capitoli sono dedicati a Pirandello.
“Un’altra figura, per me, fondamentale. Mi ricordo quando lo incontrai la prima volta. Avevo dieci anni e non sapevo chi fosse, nonostante lui fosse famosissimo. Seppi solo dopo che era un amico di famiglia e che veniva dai miei nonni a farsi raccontare le storie. Lui mi ha insegnato che l’immaginazione non basta se non supportata dall’attenzione verso i propri simili. Ho capito da lui che è la capacità di ascoltare a fare uno scrittore”.

E lei si ritiene capace di ascoltare?
“Fa parte della mia enorme curiosità verso il genere umano. Ho sempre avuto un orecchio selettivo, un po’ come i gatti che sono capaci di orientare le orecchie. In un bar affollato riesco a captare una conversazione fra due persone. Mi piace il rumore della gente. Mia moglie dice che io sono un corrispondente di guerra perché scrivo benissimo in mezzo agli altri. La mia casa di campagna è sempre invasa dai nipoti e quello per me è l’ambiente ideale”.

Nessuna torre d’avorio o sacralità della scrittura…
“Per carità. La materia prima dello scrittore sono i suoi simili e non tanto gli eroi, ma le persone cosiddette normali. Nella normalità si può trovare una ricchezza infinita”.

Questa è un po’ la ricetta di Montalbano, il protagonista dei suoi gialli. Come nascono i suoi personaggi?
“Non riesco a scrivere un personaggio se non me lo vedo passeggiare per la stanza. Deve essere una figura che si alza dalle pagine dei libri, che deve prendere corpo a tutto tondo. Dopo aver scritto La forma dell’acqua, il primo libro in cui compariva Montalbano, credevo di aver chiuso con lui e invece poi è diventato una specie di serial killer, un personaggio che è riuscito via via a far fuori gli altri miei personaggi”.

Montalbano un po’ le somiglia?
“Qualcuno mi ha detto che assomiglia molto a me, ma anche molto a mio padre”.

E come lei è un uomo di sinistra?
“Direi che Montalbano è un comunista arrangiato di quelli che considerano cose come “non uccidere”, “non rubare” come fatti che dovrebbero essere normali. Che il non lavoro sia la peggiore condanna, che ci debba essere un po’ di giustizia sociale, sono cose elementari per cui uno non può non dirsi comunista”.

Nell’ultimo numero di Micromega dedicato alla Primavera dei movimenti lei ha usato parole forti di denuncia del governo Berlusconi…
“Ho scritto che questo governo a mio avviso rappresenta un pericolo per la società e le istituzioni”.

Parlerebbe di regime?
“Regime o non regime sta di fatto che il governo Berlusconi cerca di fare sue giustizia e informazione. Da un punto di vista storico non possiamo dimenticare che questo fu uno dei modi di procedere del fascismo”.

Quanto è importante per lei la storia per capire l’oggi?
“E’ fondamentale. Sono un siciliano con un forte senso dello stato e quando mi capita di scrivere romanzi storici finisco sempre per fare questo tipo di discorsi”.

Come li costruisce?
“Parto da una fonte storica, da un fatto che mi ha colpito e intorno a questo faccio crescere una narrazione d’invenzione. I fatti, per me, sono importanti. Mi ricordo una volta sentii Togliatti rimproverare a un critico teatrale dell’Unità di non aver raccontato i fatti dell’Amleto. Sul momento mi parve assurdo, poi una volta chiese di raccontargli i fatti dell’Agamennone e scoprii che aveva ragione lui: quando racconti un fatto in realtà viene fuori come tu lo interpreti, e questo è l’importante. Quello che racconti non rimane confinato nel passato. In questo senso credo di poter dire che tutti i miei romanzi storici siano rapportabili all’oggi”.

Dopo un lungo periodo di separatezza oggi intelletuali come lei, Tabucchi, Ginsborg sembrano scendere più direttamente in campo.
“Credo che questa voglia di prendere direttamente la parola su questioni sociali e politiche sia un fatto essenziale, anche se poi persone come me, per aver dimostrato il proprio interesse civile per il paese vengono chiamate dall’estabilishment attuale “seminatori d’odio”… Insomma, non dimentichiamoci che se Berlusconi è riuscito a ottenere tanti consensi è anche perché ha sfruttato certa arretratezza culturale italiana. Ha raccolto quello che aveva seminato con vent’anni di tv privata, a cui poi si è accodata anche la Rai”.

Crede che l’impegno di un intellettuale di sinistra oggi possa trovare anche nuovi canali con i movimenti che stanno nascendo un po’ ovunque di opposizione al governo Berlusconi?
“Mi sembra che i movimenti offrano una possibilità positiva non solo perché già milita a sinistra. Essendo movimenti fluidi, tematici aprono le porte anche a chi magari scontento del governo Berlusconi non se la sentirebbe di schierarsi apertamente con un partito di sinistra”.

da Avvenimenti 7 maggio 2002

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