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Onde medie cultura alta

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 25, 2014

MarinoLa Carta dice che la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona. Una sfida che Radio3 non ha mai perso di vista, come racconta il direttore Marino Sinibaldi. Anche in tempi di crisi. E gli ascolti gli danno ragione

La lettura, l’accesso al sapere, alla conoscenza sono un diritto costituzionale. Ma il Paese reale, nella morsa della crisi, sembra aver smarrito questa consapevolezza. La chiusura di numerosi giornali, le testate online che stentano a decollare, gli acquisti di libri molto sotto le medie europee fanno riflettere. Poi però si registrano fenomeni del tutto in controtendenza come i festival di letteratura e di giornalismo che riempiono le piazze, si scoprono programmi di informazione culturale come TerzaPagina condotto da Paolo Fallai su RaiScuola che, sul digitale terrestre, trasmette anche film in inglese. Ma soprattutto c’è Radio3 che riesce a fare ascolti indagando il presente, parlando di libri, di scienza, proponendo musica colta e letture di classici come i Sonetti di Shakespeare e Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu, solo per fare due esempi recenti.

Alla guida di Radio3 dal 2009, il giornalista Marino Sinibaldi nel libro Un millimetro in là. Intervista sulla cultura (Laterza, a cura Giorgio Zanchini) intreccia autobiografia e analisi delle trasformazioni a cui è andato incontro il sistema dell’informazione culturale negli ultimi trenta anni. Erede di Enzo Forcella, racconta di aver imparato «dal Terzo programma più che dall’università» e di aver «amato moltissimo questo mezzo, già prima di poterci lavorare». Poi, nell’era di internet, Sinibaldi non si è arreso, cercando nuovi modi per rilanciare: dal Festival di Radio3 a trasmissioni che si interfacciano con il pubblico tramite i social media.

Alla fine la radio ha risentito della crisi meno di altri media?

Forse la radio ha retto meglio perché ha una sua leggerezza, una sua semplicità d’uso, ti accompagna lungo la giornata, può essere un ascolto secondario. È più compatibile con forme moderne di vita. Può essere ascoltata mentre fai altro.

 Ma la radio può essere anche mero intrattenimento. Rivolgendosi a un pubblico ampio, Radio3 invece non ha mai abbassato il livello.

Non ce n’era bisogno. Questo ci aiuta a capire l’importanza del servizio pubblico.

L’articolo 3 della Carta dice che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana, ce ne siamo dimenticati?

 L’espressione “rimuovere” gli ostacoli fa immaginare un caterpillar che arriva e smantella tutto. Certo sarebbe stato bello che nella nostra storia prima o poi ci fosse stata una capacità così radicale di sanare le disuguaglianze. Per giunta oggi sono perfino aumentate. Oltre a quelle economiche tradizionali ci sono differenze “territoriali”, di competenze, di istruzione. È come se la disuguaglianza fosse una barriera corallina su cui si sono incrostate miriadi di altre disuguaglianze. Accanto a situazioni disagiate oggi c’è anche la ricchezza incolta, nera, priva del rapporto con la bellezza. È alla base di tanta distruzione recente. Per sgretolare la disuguaglianza oggi servono miriadi di interventi piccoli e grandi, sull’istruzione, per la pluralità dell’editoria, per connettere generazioni che hanno linguaggi molto diversi fra loro. Insomma è diventato molto più complesso. Forse nel mio libro racconto l’ultima generazione, la mia, per la quale andare a scuola e leggere significava fare un salto culturale. Oggi tutto questo è diventato più complicato. La scuola e la lettura non sono più così decisive per superare l’emarginazione sociale.

Con una brutta espressione si parla di calo dei consumi culturali, quale ne è la causa?

La cultura non si divora, non sparisce, o almeno non dovrebbe. Una ricerca di Eurobarometro più correttamente parla di partecipazione culturale includendo chi visita le mostre ma anche, per esempio, chi suona uno strumento. Resta il fatto che tutti i dati culturali che riguardano l’Italia sono bassi, rattrappiti. Colpa del disinvestimento pubblico? Certamente. Ma ancora più grave mi pare il segno di marginalità che, in questo modo, si è voluto dare alla cultura. Frutto di precise economie ma ancor più, verrebbe da dire, di una certa concezione antropologica. E ora che il danno è fatto, il problema è che il cittadino diserta le mostre e i musei; il problema è lo stato di abbandono in cui lascia la propria città. Un feroce articolo di Francesco Merlo su Repubblica stigmatizzava l’assenza di visitatori nella ex Centrale Montemartini diventata museo. Alla fine la responsabilità non è del sindaco Marino, ma di chi invece di andare al museo va al supermercato o altrove.

Come stimolare il pubblico allora?

Qualche anno fa Alessandro Baricco disse: concentriamoci solo sulla tv e sulla scuola. Sul momento resistevo, ma a guardar bene aveva ragione: in fondo il pubblico si forma lì. Fin qui la tv non ha fatto crescere un pubblico attivo. Quanto alla scuola penso che in qualche modo svolga ancora il suo compito. Semmai il problema sono le famiglie che non “investono” sulla cultura e su quelle competenze che riguardano la rete, che non passano attraverso la scuola.

Nel libro Senza sapere (Laterza) Giovanni Solimine scrive che in Italia l’emergenza è l’ignoranza.

Sono d’accordo, per questo penso che sia importante mettere la responsabilità nelle mani delle persone e delle famiglie. Quando ero giovane io, se eri ignorante, era colpa della società. Oggi se sei ignorante, è colpa tua, perché hai tutto a disposizione, hai tutte le possibilità di attingere a una serie di fonti culturali che una volta erano inaccessibili ai più. Ora servono politiche consapevoli, che rovescino la marginalità simbolica in cui la cultura è stata lasciata. Se personaggi di grande successo nella società e nella politica sono di un’ignoranza disarmante allora dobbiamo ammettere che in Italia la cultura è svalutata al massimo.

Da dove ripartire?

Occorre ricominciare a dire che la cultura dà libertà personale, autonomia, ma anche una certa dose di piacere.

Anche chi fa informazione dovrebbe contribuire. Una trasmissione come Fahrenheit, fatta «con i libri, a partire dai libri, per discutere anche di altro» dimostra che si può invertire la rotta.

Torno a dire che molto si deve alla storia di Radio3, in quanto servizio pubblico. Forse nessun investitore privato avrebbe creato una realtà come questa radio. Con lungimiranza fu fondata nel 1950,  con molto coraggio, pensando che occorresse far arrivare al grande pubblico contenuti alti, allora elitari, come la drammaturgia, la musica colta. Poi le cose sono cambiate, con la scolarizzazione di massa è stato superato il rapporto di riverenza con i libri. Ora magari li disprezzano, ma certamente sono diventati beni accessibili.

La perdita di “aura” che hanno subìto le opere d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica di cui parlavaWalter Benjamin, in questo caso, è stata positiva?

Ci ha aiutato a fare trasmissioni meno paludate. Negli anni Novanta, ancor prima che iniziasse la stagione dei festival, capimmo che si poteva parlare di questi contenuti culturali in modo più amichevole, disinvolto, più giocoso, molto più quotidiano.

Oggi però, come notava Christopher Hitchens, si sta diffondendo uno snobismo al contrario. Nei giornali tutto deve essere pop, leggero, quasi svuotato di senso…

Qui a Radio3 abbiamo dei codici interni che ci fanno da guida nei programmi. Quando diventai direttore scelsi tre parole chiave: bellezza, intelligenza e contemporaneità. Trasmettere bellezza, cercare l’intelligenza, ma contemporanea. Anche occuparsi di Mozart riguarda profondamente l’oggi. Ora quel trittico è diventato 3D: differenza, difficoltà, diffusione. I contenuti culturali non possono non presentarsi come qualcosa di altro, anche rispetto al nostro modo normale di vivere. Solo aprendo nuove finestre, con questo scarto, si riesce a illuminare la nostra realtà quotidiana o a consolarla… Mozart mi consola la sera, come la lettura di un buon romanzo, non disprezzerei questa funzione. Insomma, per dirla con Sandro Penna, la differenza è una sfida. Poi però tu devi essere davvero diverso, non puoi vantare la tua differenza elitaria e adottare metodologie, linguaggi che non corrispondono. Aggiungo: devi essere diverso ma non lo puoi dire, perché altrimenti crei subito un elemento intimidatorio verso gli altri. Questa diversità, deve essere coerente con se stessa perché tanta cultura elitaria è volgare, è pacchiana, usa strumenti di corruzione, i premi, lo scandalo. Essere diversi implica una responsabilità.

Nel libro tu dici che l’economia non è poi così importante: una volta risolte le questioni materiali di base non ha senso continuare ad accumulare, ci si potrebbe dedicare ad altro e la domanda culturale potrebbe anche crescere…

Ce ne sarebbe davvero bisogno, il mondo è così difficile da capire che forse bisognerebbe dedicare più tempo a questa attività sottraendo ore a impegni più economicamente rivolti. In tempi di crisi può suonare poco rispettoso verso tanti giovani che hanno davanti un futuro incerto, ma alla mia generazione è sembrato di poter fare questo discorso: una volta raggiunta un po’ di sicurezza evitiamo di inseguire supposti bisogni materiali, per guardare ai desideri, per imparare a conoscersi meglio. Ma per far questo dovremmo sottrarre qualcosa all’incubo dell’economia. Negli anni Ottanta il trend era l’accumulo, il consumo, quando invece avevamo la possibilità, il tempo, e anche il denaro per guardare altrove, alla bellezza e all’intelligenza, per cercare di capire un po’ di più la realtà, per sviluppare un po’ di creatività, per aiutarla a crescere dove c’è, avendo fiducia nella creatività e non solo nell’economia e nel Pil.

 

 

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