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Nell’America selvaggia

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 3, 2011

Con un intenso romanzo  sul tema della memoria, una sorta di moderno epos del New Egland, Paul Harding ha vinto il premio Pulitzer. Ed è solo il suo esordio

di Simona Maggiorelli

Edward Hopper-Railroad Sunset

George Washington Crosby è un personaggio che ha un nome importante quanto la storia dell’America. Anche se la sua vita è scorsa via in silenzio, in lunghi viaggi attraverso i boschi del New England. Viene da una famiglia di stagnari e venditori ambulanti ma la sua vera passione è accomodare orologi. E il ticchettio di quei meccanici misuratori di tempo nel romanzo di Paul Harding, Tinkers, diventa sotterraneo metronomo di tutti i pensieri del protagonista.
Finché tutto precipita. E comincia a vorticare furiosamente. Finché il mondo interiore di George Washington Crosby esplode in una crisi che l’autore ci racconta come malattia fisica, ma che agli occhi del lettore acquista il senso più profondo di una catastrofe interiore.

Siamo all’inizio del romanzo. E il protagonista sta già morendo. In un potente rincorrersi di immagini la sua esistenza e quella di tre generazioni scorre come un fiume in piena nella sua mente. Un mare in tempesta in cui anche noi, d’un tratto, siamo precipitati.
Con questa storia fatta di niente, in cui non ci sono fatti, ma dove a tenere la scena è quasi solamente ciò che accade nella testa del protagonista, il quarantatreenneee Paul Harding a, sorpresa, ha vinto  il premio Pulitzer. Da esordiente. Sostenuto da una piccola casa editrice indipendente, la Bellevue Literary Press. Arrivato in Italia la settimana scorsa per presentare la traduzione di Tinkers, appena uscito per Neri Pozza con il titolo L’ultimo inverno, Harding racconta della sua sorprendente vicenda editoriale, con un misto di candore e stupore: «Erika Goldman è una editor veterana e dirige una piccola casa editrice no profit, le devo moltissimo – ammette lo scrittore – anche perché in precedenza avevo bussato a molte porte e nessuno aveva voluto pubblicare il romanzo».

Dopo l’uscita poi, trascinante è stato l’effetto del passaparola tra lettori e librai. Così questo romanzo, che affresca pagine di storie del New England pur non avendo nulla del romanzo storico, ha scalato le classifiche di vendita statunitensi fino alla cima.

Difficile raccontarne la sostanza e l’alchimia, giocata com’è fra la potenza lirica e visionaria di questo unico, ininterrotto, flusso interiore del “personaggio che dice io” e una natura trasfigurata in senso epico che diventa, essa stessa, protagonista. «Non mi interessa raccontare trame,- chiosa Harding – mi interessano i personaggi, la loro psiche, le loro memorie che hanno il potere di fare decadere l’andamento lineare del tempo. Ho sempre pensato al romanzo come al prodotto di una mente, con i salti logici e temporali che ne possono venire».
Da un lato, dunque, la psicologia dei personaggi e la possibilità che offre di rappresentare qualcosa di estremamente personale e insieme di universale ( «Non voglio tratteggiare dei i tipi, “il” padre, “la” figlia, ma quel padre, quella figlia» avverte Harding). Dall’altro lato c’è un’America selvaggia, antica, quasi mitica.

Sotto questo riguardo nel romanzo di Harding si possono scorgere echi di grandi scrittori come Faulkner  e Howthorne e riguardo alla rappresentazione della natura in senso stretto anche di scrittori tipicamente americani e protestanti come i “trascendentalisti” Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau,
Ma a stregare il lettore di Tinkers è soprattutto la sonorità della lingua e lo spessore lirico della prosa di Harding che, a partire da quelle che lui stesso chiama «improvvisazioni», diventa tema musicale e, pagina dopo pagina, sinfonia che riesce a comporre tutta una serie di elementi a tutta prima dissonanti. Un parallelismo musicale che, da ex batterista dei Cold water flat (un gruppo grunge che ha avuto un certo successo in America una quindicina di anni fa), non disdegna affatto. Anzi.

«Il ritmo per me è molto importante – racconta di sé – scrivo ad orecchio. E potrei quasi dire che i  tempi, le pause, le battute con cui mi vengono le frasi quasi precedano il loro senso letterale». Un lasciarsi andare al ritmo dell’ispirazione che paradossalmente, però, in questo romanzo, sembra combinarsi con una cura quasi maniacale nella scelta delle parole, precise, concrete, vivide. «Ai miei studenti all’Università di Harvard do sempre un unico consiglio: essere precisi conta più di ogni altra cosa nello stile- dice Harding -. Raccomando loro di scrivere nella maniera più chiara possibile di ciò che ritengono più misterioso e profondo nell’esperienza umana. Essere vaghi o oscuri significa fallire nella scrittura creativa». Una ricerca di essenzialità e precisione che Paul Harding dice di aver sperimentato in prima persona quando ha cominciato a scrivere Tinkers a partire da quel che aveva sentito raccontare dal nonno materno, in particolare sulla sua vita nel Maine, dove era cresciuto.

«Quando mio nonno aveva dodici anni – racconta Harding – il padre abbandonò lui e la famiglia: aveva scoperto  che la moglie voleva farlo internare in un ospedale a causa della sua malattia, l’epilessia. Ma questa era una vicenda dolorosa di cui  mio nonno non amava parlare e questo ancora oggi è tutto quello che so». Una storia che incuriosiva Paul Harding da bambino, ma a cui poi dice di non  aver pensato più. Fino a quando è ricomparsa, completamente trasformata, nel romanzo. E arricchita dal significato letterario e simbolico che l’epilessia,, e la malattia in genere, hanno avuto in grandi scrittori dell’Ottocento. A cominciare da Dostoevskijj per arrivare a Thomas Mann. «Ammetto di non aver mai veramente letto Dostoevskij – confessa Harding-. Ho meglio: ci ho provato più volte, ma per qualche ragione non sono mai riuscito a portare in fondo la lettura. Al contrario, invece, ho letto e riletto più volte Thomas Mann. I suoi capolavori probabilmente mi hanno influenzato. Però Mann è uno scrittore affascinato dalla malattia. Quasi in maniera patologica. E mentre scrivevo Tinkers ho spesso pensato al modo in cui lui ha parlato di epilessia. Tenendolo bene a mente come esempio di ciò io intendevo evitare. Non volevo in nessun modo estetizzare la malattia, renderla qualcosa di romantico. Ma soprattutto non ho mai deciso razionalmente, in maniera astratta,  di scrivere di epilessia. Come dicevo all’inizio – conclude Paul Harding – era un aspetto del personaggio. Il mio protagonista era malato e questo era un fatto non negoziabile tra me e lui; un fatto con cui, in quanto autore, non potevo non fare i conti».

da left-avvenimenti del 4 marzo 2011

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